Oggi non suona affatto strano pensare che un turista tedesco o inglese ami la cucina italiana. E scelga di trascorrere le vacanze nel nostro Paese per assaporare prelibatezze di ogni tipo, oltre che per visitare luoghi unici al mondo.
Eppure le cose non sono sempre state così: per lungo tempo il cibo italiano ha suscitato disprezzo e perfino orrore nei popoli stranieri, in particolare tedeschi e inglesi. Come racconta il libro del saggista Dieter Richter, recentemente tradotto in italiano con il titolo Con gusto. Il Grand Tour della cucina italiana (Edizioni Centro di storia e cultura amalfitana, 2022). Avvalendosi di numerosi documenti inediti, l’autore illustra il punto di vista dei visitatori del Nord Europa, in un percorso fatto di scoperte, cambi di prospettiva e contaminazioni.
“Olio d’oliva maleodorante e indigesto”
I resoconti dei viaggiatori rispecchiano la storia di un’Europa divisa sul piano gastronomico, con il burro protagonista al Nord e l’olio principe della cucina del Sud. Il riconoscimento del nostro modello culinario è stato tutto fuorché lineare, come dimostrano i giudizi sprezzanti dei viaggiatori stranieri in Italia. Addirittura i tedeschi e britannici, per sfuggire alla tremenda cucina italiana, erano soliti soggiornare in locande con personale del loro Paese: qui potevano trovare “cibo più sicuro”, come scrivono diversi avventurieri in visita a Roma.
Il poeta Otto Kimming, al ritorno dal suo tour nel Bel Paese, nel 1896, è entusiasta del viaggio, ma si trova costretto ad ammettere che la cucina italiana è “una croce” con “carne dura, burro cattivo o assente, olio, ancora olio, aglio su aglio”. Proprio l’olio d’oliva, oggi così amato e celebrato, viene definito “maleodorante” e “indigesto”. L’orrore suscitato è tale da generare persino una diagnosi medica: la “malattia dell’olio”, ovvero un’imbarazzante indisposizione associata a disturbi facilmente immaginabili.
“I maccheroni? Un groviglio di vermi”
La pasta lunga, chiamata con spregio “maccheroni” e diffusa soprattutto nell’Italia meridionale, provoca disgusto e suscita giudizi in alcuni casi spietati, come quello formulato da Carl Friedrich Benkowitz, assiduo frequentatore di Sorrento e studioso del folclore italico. Benkowits arriva a sostenere nel 1804 che i napoletani possano mangiare la pasta lunga per via di una deformazione anatomica: “Una gola molto ampia che sembra dilatarsi in proporzione alla quantità di cibo; agli esperti il compito di studiare se anche da ciò dipenda la sua predisposizione per il canto”.
Di passaggio a Napoli, lo scrittore e compositore prussiano Gustav Nicolai scrive di un “groviglio di vermi giallo-grigi formato da sabbiosi maccheroni duri come il sasso”, mentre altri intellettuali teutonici definiscono i maccheroni “un mangime bestiale”, al punto che medici “assennati” avrebbero riferito che in Italia “una quantità di persone divorano la maledetta pasta fino a morirne”.
La pizza e quell’aria di “sudiciume”
Non va meglio per il piatto napoletano per eccellenza, la pizza. Lapidario il commento dello storico Fernand Gregorovius, dopo un soggiorno a Napoli nel 1853: “Si ordinano e in cinque minuti sono pronte; per digerirle, però, è necessario avere i succhi gastrici di un lazzarone”. Ma la pizza era sconosciuta fino all’inizio del ‘900 non solo agli europei, ma anche a milanesi e fiorentini.
L’italianissimo Carlo Collodi, in un suo libro per le scuole del 1880, annota così il traumatico incontro ravvicinato con un venditore ambulante: “Vuoi sapere cos’è la pizza? È una stiacciata di pane lievitata, e abbrustolita in forno, con sopra una salsa di ogni cosa un po’. Quel nero pane abbrustolito, quel bianchiccio dell’aglio e dell’alice, quel giallo-verdacchio dell’olio e dell’erbucce soffritte e quei pezzetti rossi qua e là del pomidoro danno alla pizza un’aria di sudiciume complicato che sta benissimo in armonia con quello del venditore”. E come non ricordare che Pellegrino Artusi nel suo “La scienza in cucina”, di fatto il primo ricettario dell’Italia unita, cita sì la pizza, ma una volta sola e per di più come dolce fatto con la pasta frolla?
In principio furono gli agrumi
Ma insomma, con una reputazione di così basso livello, come avrà fatto la nostra cucina a diventare un riferimento planetario? Può sembrare bizzarro, ma il cibo italico comincia a prendere piede in Germania grazie agli agrumi, frutti considerati esotici e preziosi fin dall’epoca romana, protagonisti di avventure orientaleggianti e innumerevoli affreschi. E poiché la storia dell’alimentazione è storia di incontri, viaggi e scambi commerciali, la vicenda degli agrumi non fa eccezione. Nel Rinascimento, dalla Sicilia approdano in Campania, in Liguria e sul Garda: una storia di fuga dopo la conquista araba dell’Isola, che spinge arance e limoni su fino a Norimberga, in Germania. Dove abbelliscono giardini delle élites borghesi e aristocratiche, impreziosiscono prima le tavole dei tedeschi dai gusti raffinati e poi quelle delle masse. Storie di viaggi e migrazioni, si diceva. E proprio i commercianti di limoni e arance sono tra i primi emigrati venditori di cibo, a metà ‘700. Seguiti da gelatieri, ristoratori, camerieri e naturalmente pizzaioli.
La pizza alla conquista dell’America (e dell’Europa)
New York, 23 novembre 1904. Una nave strabordante di migranti italiani si avvicina lentamente al porto, e tra i passeggeri che affollano la S.S Calabria c’è anche un giovanotto napoletano di 18 anni, Gennaro Lombardi. Salpato con la sorella maggiore Maria, raggiunge il fratello Giuseppe, da tempo nella Grande Mela. Gennaro è uno dei numerosissimi italiani che arrivano negli Stati Uniti, in particolare a New York, per sfuggire alla miseria di un’Italia unita da un quarantennio, ma ancora divisa sul piano economico e sociale.
Sulla vita di Lombardi sappiamo poco. Ma conosciamo un dettaglio fondamentale: è lui ad aprire la prima pizzeria all’estero, un locale destinato a entrare nella storia e tuttora esistente. E se all’inizio i clienti sono soprattutto “paisà”, con il passare del tempo le cose cambiano. Ancora una volta, raccontare l’affermarsi dei sapori e dei gusti italiani nel mondo vuol dire raccontare storie di emigrazioni, contaminazioni, incontri e scontri. In questo caso significa anche fare i conti con i giudizi e i pregiudizi degli americani. Come ricorda sempre Richter, ancora nel 1941, il New York Times così descrive la festa della Madonna del Carmine a Little Italy: “Dopo le loro preghiere, le masse consumano quantità gigantesche di pizzerie [sic], una focaccia gommosa con formaggio e salsa di pomodoro”. A diffondere il mito della pizza italiana, dagli anni ’50 in avanti, contribuiranno la consegna a casa e la produzione casalinga. Si legge sempre sul principale quotidiano di NY che nel 1956, “in molte varianti, la famosa focaccia italiana fa ora concorrenza per popolarità all’hot dog”.
Anche nel successo della pizza in Germania c’è un po’ di America. La notorietà si deve a un tal Nicolino di Camillo e alla moglie tedesca. Originario dell’Abruzzo, arriva in Germania a seguito di un’unità militare americana durante la Seconda guerra mondiale. E i soldati statunitensi sono anche i principali clienti del suo locale: “Birreria e trattoria Capri”, a Wurzburg, quartier generale della prima divisione fanteria Usa. I tedeschi, tuttavia, rimangono a lungo diffidenti. Solo negli anni ’60 e ’70, quando i flussi migratori dall’Italia si intensificano, i diversi Lander si popolano di pizzerie.
E in Italia, ci si chiederà? Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, al Nord rimane un cibo pressoché sconosciuto fino agli anni ’50. Solo con il film L’oro di Napoli, presentato a Cannes nel 1955, e Sophia Loren nel ruolo di pizzaiola, anche l’Italia scopre quello che fino a poco tempo prima era un cibo di strada napoletano, il cui nome veniva scritto ancora tra virgolette negli articoli del Corriere perché sconosciuto al grande pubblico. L’emigrazione interna da Sud a Nord e il turismo di massa internazionale hanno fatto il resto. Grazie anche a quei ristoranti dai nomi un po’ posticci, ma tutto sommato familiari ed efficaci, come “Da Mario” o “Zio Peppe”.
La dieta mediterranea: mangiare bene e stare bene
Ancel Keys merita un posto d’onore per aver fatto conoscere al mondo la dieta mediterranea. Ed è curioso che il massimo sponsor del regime alimentare più salutare al mondo sia un nutrizionista americano. Ma non è un fatto casuale: durante la Seconda guerra mondiale, Keys mette a punto la “razione K” per i soldati, ovvero una razione di sopravvivenza altamente calorica pensata per i militari. Nel 1951 parla per la prima volta all’Onu di un possibile nesso tra alimentazione e malattie cardiovascolari e durante un soggiorno di ricerca a Napoli, tra screening e frequenti analisi sulla popolazione, matura un’idea rivoluzionaria per quegli anni: “I napoletani poveri mangiano in maniera più sana degli americani ricchi”. Da qui, negli anni Sessanta, richiama l’attenzione sugli effetti negativi di un regime alimentare troppo ricco di grassi, tipico degli Usa, indicando a metà anni ’70 la dieta dei Paesi mediterranei come il modello da seguire: olio d’oliva (altro che “indigesto”, con buona pace dei tedeschi), pane, legumi, frutta, verdura, pesce, vino. Con moderazione possono essere consumati anche latticini, carne, grassi animali, uova e birra. Da allora, senza più i pregiudizi di europei del Nord e americani, il buon cibo italiano si gusta la tanto attesa rivincita.
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