C’è una generazione che ha conosciuto bene la politica, che l’ha praticata e frequentata, che magari è stata coinvolta anche negli sbandamenti ideologici di un Paese come l’Italia, ma non ha mai smarrito la strada della ragione. Questa generazione ha quasi toccato con mano, magari senza accorgersene ma per memoria familiare, la “morte della patria”, gli effetti di una guerra perduta e soprattutto l’eredità devastante del fascismo, che era diventato non solo un sistema, ma un modo di pensare, di ragionare, di vivere quotidianamente. La Liberazione dovuta agli Alleati e alla generosità di chi ha fatto veramente la “guerra partigiana” non sembrava sufficiente a una pronta rinascita.
Nonostante il contesto in cui è cresciuta, questa generazione ha partecipato al riscatto di un Paese che, trattato in modo drastico come “aggressore” dal Trattato di pace di Parigi dell’ultimo dopoguerra nel 1947, è riuscito a raggiungere, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, il quinto posto nel mondo tra le potenze economiche con l’entrata nel G7.
Roberto Formigoni è uno degli esponenti di questa generazione, con una scelta basata su una semplice e quasi normale accettazione di un destino politico che mette in fila una vita da deputato, da europarlamentare, da presidente della Regione Lombardia per quasi un ventennio. Ma soprattutto da una vita scandita dall’incontro determinante con una personalità come quella di don Luigi Giussani e dall’esperienza che da Gioventù studentesca lo ha portato alla leadership del Movimento popolare e a un ruolo determinante nella vita politica del Paese.
Oggi Formigoni riassume in un bel libro questa sua lunga esperienza. Un libro dal titolo emblematico della sua vita politica, Una storia popolare (Cantagalli, 2021), rispondendo con puntiglio e con la consueta passione alle domande che gli fa un bravo giornalista come Rodolfo Casadei, passando attraverso le fasi della sua lunga esperienza con quattro passaggi e un post scriptum.
La ricchezza del testo non sta solo in questo, perché Una storia popolare contiene anche una puntuale e significativa introduzione del cardinale Camillo Ruini, che ha il grande merito di riassumere il lungo racconto con una concisione incredibile. Scrive il cardinal Ruini: “Questo libro parla di sessant’anni di storia del nostro Paese, vissuti e visti attraverso gli occhi di un ragazzo che incontra molto presto una proposta cristiana che lui definisce affascinante, quella di Comunione e liberazione, e poi diventa uomo sempre seguendo le tracce di quell’incontro, ma anche trovandosi ad assumere responsabilità in campo civile e politico via via più importanti”.
Perché Ruini coglie bene l’essenza di questa lunga testimonianza di Roberto Formigoni insieme a Rodolfo Casadei? A nostro parere, perché di fronte alla realtà, sempre più confusa e contorta di questo Paese, di fronte alle storture della nostra democrazia “giovane e già affaticata”, esce un’altra storia, probabilmente molto più vera, rispetto a quella propagandata dalle élites editoriali dei nostri tempi, dei cattedratici di storia e di filosofia che solo nel dopoguerra sono saliti sul carro del vincitore e poi, purtroppo per loro, del “perdente storico” per eccellenza, ricostruendo una lunga vicenda in maniera un po’ falsa e un po’ pressapochista, per arrivare infine alla “terapia dell’oblio”, allo scopo di rifugiarsi in una delle ritirate più vergognose rispetto alla ricerca della verità.
È ancora il cardinal Ruini a fornire una spiegazione molto azzeccata: “Non è la storia di un uomo solo, ma è anche la storia di un popolo fortemente coeso, che cammina con lui. E insieme affrontano battaglie culturali e politiche, ora vincendo e ora perdendo, ma sempre tenendo la rotta e riprendendo il cammino. E sempre lavorando perché l’intelligenza della fede che hanno ricevuto diventi anche intelligenza della realtà”. Con questa premessa si può affrontare ancora meglio il lungo racconto, le tante risposte che Formigoni fornisce a Casadei.
Il piano del libro è lineare e comincia con una prima parte dal titolo carico di ricordi, probabilmente ripescati nella memoria, anche con una comprensibile difficoltà e probabilmente con l’aiuto di amici. Il titolo di questa prima parte è: “Dall’infanzia a Gioventù studentesca e Cl”. E qui viene descritto l’itinerario scolastico, i ricordi familiari, le zone dell’infanzia e gli amici che segnano inevitabilmente una vita. A un certo punto Formigoni esprime l’impressione diffusa in quegli anni Cinquanta: “Nasco in una famiglia cattolica e devo la mia educazione religiosa principalmente a mia madre. Sono gli anni Cinquanta e ricevo una formazione cattolica abbastanza convenzionale, nel clima sociale di un Paese come l’Italia dove tutti sono battezzati, ma il cristianesimo stava diventando formale, come già aveva capito don Giussani. Andare a messa la domenica, tentare di rispettare i comandamenti, confessarsi e comunicarsi”. Evidentemente non basta questo formalismo, perché alla fine diventa quasi routine o un’abitudine noiosa e non vissuta come dovrebbe essere veramente vissuta.
È nella seconda parte del libro che “cristiani strani” si impegnano personalmente e collettivamente e questa seconda parte ha un titolo emblematico: “Gli anni del Movimento popolare”. È un movimento che diventa una parte della Dc in un modo contraddittorio? Formigoni spiega con tranquillità: “Nessuna contraddizione. L’obiettivo della scelta di Cl era che nascesse, anzi che rinascesse il movimento cattolico in Italia come soggetto politico unitario dei cristiani”. È un passo fondamentale, perché non si dovrebbe votare Dc “turandosi il naso”, ma si dovrebbe avere un rinato e ricostituito movimento cattolico.
Nella terza parte c’è la storia che forse, da un punto di vista strettamente politico, è quella più importante: al governo della Lombardia. Al governo cioè di quella che è la regione più importante d’Italia, che ha un Pil superiore a quello della Svezia, tanto per fare un confronto, e che è sempre stata all’avanguardia, numeri alla mano, dello sviluppo economico e sociale italiano. Sono passati anche gli anni di Tangentopoli, l’Italia sta cadendo nelle mani dei “gentleman” dei partiti del “vaffa”, ma c’è chi resiste sulle eccellenze e sulla forza economica per creare, contenendo addirittura spinte autonomistiche, di secessione come quelle che vengono dalla Lega di allora e creando nuove strade economiche di sviluppo. Formigoni è un esempio di questa tenuta di eccellenza lombarda nell’atmosfera di confusione che avanza.
È nella quarta parte del libro, dal titolo “Gli ideali alla prova” che si fanno anche i bilanci. Sono arrivati i tempi veramente difficili, ma la realtà lombarda, che Formigoni ha segnato con la sua azione, resta un esempio di eccellenza e di coerenza che, alla fine, piega anche i desideri indipendentisti della Lega e di alcuni ambienti industriali e finanziari.
C’ è poi nel libro una quinta parte costituita da un post scriptum, in cui Formigoni dice quasi profeticamente: “Non so quale sarà la situazione quando questo nostro dialogo andrà in stampa, ma una cosa è certa: si sente una grande mancanza del centro, nell’accezione politica del termine. Manifestano nostalgia anche tanti che per anni hanno esecrato il centro come il luogo della non decisione, del rinvio inconcludente, della mediazione infinita che impediva di prendere decisioni forti. Il lungamente agognato bipolarismo in Italia è diventato subito un bipolarismo di guerra, feroce, basato sulla delegittimazione dell’avversario”.
Formigoni fotografa in fondo quella che è stata la costituzione estemporanea (usiamo un eufemismo) della seconda repubblica. Tutti hanno responsabilità, ma certo non le hanno avute politici come Roberto Formigoni. Tuttavia quel cataclisma nessuno ha saputo fermarlo e i tempi sono sempre peggiorati.
È giusto ritornare per un attimo all’introduzione di Ruini, quando scrive: “Roberto Formigoni è stato costretto a una conclusione traumatica e immeritata della sua esperienza politica. È stato un danno non solo per lui, ma per quanti condividono con lui una certa visione dell’Italia e del suo futuro”. Il riferimento è alla condanna ricevuta, non solo immeritata, ma senza prove, che ha “estirpato per mezzo di magistratura” (tanto per cambiare) Formigoni alla vita politica, subendo anche penalità in linea con il vecchio fascismo. A Formigoni i “nuovisti” del “vaffa” e i “nipotini di Breznev” avevano tolto pure la pensione. Ora sono indignati perché la pensione è stata giustamente restituita.
Qualche giorno fa, Formigoni ha scritto su un quotidiano: “Una sentenza della Corte costituzionale (la numero 3 del 1966) aveva cancellato la norma inserita nel codice penale dal ministro fascista Alfredo Rocco che disponeva appunto la revoca dell’intera pensione ai condannati”. Tutto questo ha provocato una crisi biliare ai “chierici del vaffa” e, appunto, ai “nipotini di Breznev”.
Speriamo di riabbracciarlo al più presto, complimentandoci intanto per la sua lunga e minuziosa ricostruzione storica.
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