«Forse un mattino andando in un’aria di vetro,/arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:/il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/di me, con un terrore da ubriaco». Chissà se hanno mai letto la meravigliosa poesia di Montale, i milioni di adolescenti che giocano a Fortnite, e che l’altro giorno sono rimasti a bocca aperta, a contemplare il nulla che inghiottiva il loro gioco.
Oppure, chissà se hanno mai letto La storia infinita di Michael Ende, la storia fantastica – in tutti i sensi – di Bastiano Baldassarre Bucci che lotta per strappare il regno di Fantàsia al Nulla che avanza. O chissà se almeno hanno visto l’omonimo film di Osar Pedersen, uno dei favoriti dei miei figli quand’erano piccoli. Probabilmente non conoscono né l’uno né gli altri; quantomeno, i miei alunni che giocano a Fortnite non hanno la più pallida idea di chi sia Montale, e se chiedo loro che sia La storia infinita mi guardano con occhi smarriti.
E allora ben venga, il buco nero che ha inghiottito lo scenario su cui milioni di persone – ragazzi, adolescenti soprattutto, il videogioco è popolarissimo specialmente fra i teenager più giovani – stavano giocando. Ben venga, perché per una volta, per un attimo, ha messo questi milioni di ragazzi – nel linguaggio che usano loro, nell’unico linguaggio forse che oggi sono in grado di parlare e di capire – davanti a un fatto straordinario, a un fatto davanti al quale gli uomini, da sempre, si sono fermati con un brivido: il Nulla. Il nulla, il niente, la fine di tutto, la possibilità che tutto sia niente.
Il pensiero occidentale, fin dalle origini, ha tentato di esorcizzarlo: “L’essere è, il nulla non è”, ha sentenziato Parmenide all’alba della filosofia. Nell’ultimo mezzo secolo, Emanuele Severino ha scritto libri su libri per rilanciare il pensiero di Parmenide, la certezza originaria che “l’essere è, e non può non essere”. Tutto il pensiero occidentale – sintetizzo malamente il pensiero di Severino – è figlio dell’irrazionale “fede nel nulla”; e tutta la battaglia filosofica di Severino è stata combattuta per ristabilire la certezza che “solo l’essere è”. Ma, per quanto Severino combatta, il timore che l’origine e il destino del mondo sia il nulla rimane nel fondo del cuore umano. Non c’è essere umano consapevole che non sia stato sfiorato, almeno una volta, dal brivido cosmico: e se davvero tutto venisse dal niente e fosse destinato a tornare niente? Nell’«Abisso orrido, immenso/ov’ei precipitando il tutto oblia», per dirla con Leopardi?
Certo, probabilmente il buco nero di Fortnite non ha niente a che fare con tutto questo. Probabilmente, forse certamente, è solo una geniale trovata di marketing. Forse, quando il lettore leggerà queste note, l’enigma sarà già stato sciolto, il gioco si sarà sbloccato, l’undicesima stagione sarà già cominciata. Tutti avranno già tirato un sospiro di sollievo, saranno già tornati «tra gli uomini che non si voltano» di Montale. Ma, per un momento, la questione è stata posta.
E mi ha molto colpito come l’ha commentata Riccardo Luna su Repubblica.it. “Perché oggi viviamo nel regno del sequel?”, si domanda in sostanza Luna. E risponde: perché «in questi anni digitali abbiamo perduto: il senso della fine. Non finisce più nulla. Non finisce il flusso delle notizie sul web, non finiscono gli aggiornamenti sui social, non finiscono le serie tv (anche quando sarebbe meglio finirla lì, dopo una splendida prima serie, come nel caso della Casa di Carta). E non finiscono i film, che hanno sempre un due, un tre, un quattro, e quando proprio non si può andare avanti, si torna indietro, si raccontano gli antefatti […] Un anno fa il New York Times aveva calcolato che al box office dei film più visti, 17 su 20 sono sequel. È scomparsa la fine delle storie, insomma».
E a me vien da dire: e di che ci stupiamo? Non è un problema di “questi anni digitali”; è un problema dell’umano. Perché vogliamo il sequel? Perché non vogliamo morire. Perché non siamo fatti per morire. Perché vogliamo vivere sempre. Il desiderio di vivere sempre è un desiderio giusto, è radicato nell’animo umano. La litania dei sequel, la sagra delle stagioni delle serie TV, danno a questo desiderio, giusto, una risposta illusoria. Allora la fine di una serie, conclude Luna, ci costringe al compito di «trovare un senso alla morte di un protagonista, e di provare a darlo in questo modo anche alle nostre vite. Come disse una volta Steve Jobs nel suo discorso più famoso: “La morte è la migliore invenzione della vita”».
Allora, il buco nero di Fortnite ci ricorda, per un istante, nella lingua di oggi, che la risposta dei sequel è illusoria. Che, dietro la ripetitività infinita delle serie TV, il Nulla incombe ancora, sempre. Che per il nostro desiderio di vivere sempre la ciclicità delle serie TV o dei videogiochi o di qualunque altro aggeggio meraviglioso non è la risposta adeguata. Che, ai tempi di Parmenide come ai nostri, la questione è sempre la stessa: o c’è l’Essere, che sta da sempre, Origine e Destino eterno di ogni storia effimera; oppure il Nulla – «il nulla alle mie spalle» di Montale, il buco nero di Fortnite – alla fine ingoia tutto.