Una sera d’inverno del 1932 un giovane uomo sulla trentina, armato di treppiede e macchina fotografica, riesce a convincere con modi garbati la custode della cattedrale di Notre-Dame a farsi rinchiudere, privilegio fino ad allora mai concesso a nessuno, in una delle sue torri. Dopo una salita in totale oscurità, che sembra non finire mai, tra spettrali chimères e gargouilles, i mostri fantastici che adornano la cattedrale, quel temerario ragazzo si trova davanti – da un punto di osservazione privilegiato – lo spettacolo unico e affascinante della Parigi notturna vista dall’alto, costellata di luci che spuntano in mezzo a una nebbiolina rarefatta. Rimarrà lì per tutta la notte, uno scatto dopo l’altro, quasi stregato. È Gyula Halász, eclettico artista di origini ungheresi che da qualche anno ha deciso di vivere nella metropoli francese, che lo ha ammaliato sin dall’infanzia. Già pittore, disegnatore e poi giornalista, si era da poco interessato alla fotografia per illustrare i suoi articoli, così come gli era stato chiesto dalle testate a cui collaborava. Ci prese gusto, al punto da iniziare a fermare con l’obiettivo, su larga scala, anche soggetti ordinari, cose e persone: nacque così la straordinaria sequenza Paris de nuit, di cui fanno parte le immagini riprese dalla torre di Notre-Dame, una serie che lo farà notare e apprezzare.
Per firmare i suoi lavori fotografici, nello stesso anno dell’incursione notturna a Notre-Dame – il 1932 – Gyula sceglie lo pseudonimo di Brassaï, e così sarà chiamato per il resto dei suoi giorni. Il nome d’arte deriva da Brassó, il borgo medievale sui Carpazi, in Transilvania, dov’era nato il 9 settembre 1899, fino alla prima Guerra mondiale appartenente all’Impero austro-ungarico e poi entrato a far parte del Regno di Romania come Brasov. A quel giovane simpatico e intraprendente piaceva girovagare con la macchina fotografica al collo per “fissare” tutto ciò che lo circondava e in cui si imbatteva, senza distinzioni. Oggi lo si definirebbe “inclusivo”, ma era molto di più. Si trovava a suo agio in ogni contesto e con chiunque. Andrà avanti a fotografare per tutta la vita, per più di mezzo secolo. “Ero alla ricerca della poesia della nebbia che trasforma le cose, della poesia della notte che trasforma la città, della poesia del tempo che trasforma le persone”. A uno dei maggiori fotografi del XX secolo, che l’amico scrittore e compagno di scorribande notturne Henry Miller definì “uno sguardo vivente”, per l’estrema vivacità e irrequietezza e l’amore per la vita, Milano dedica a Palazzo Reale, fino al 2 giugno, la mostra Brassaï. L’occhio di Parigi.
L’esposizione è divisa in una dozzina di sezioni, o aree tematiche, che ripercorrono tutta la sua carriera artistica, dagli inizi agli studi di nudi e ai “paradossi” della maturità, passando per i graffiti (“il muro ha sempre esercitato su di me una sorta di fascino”) e gli espressivi “ritratti” di celebrità delle Années Folles come Braque, Cocteau, Picasso, Beckett, Prévert, Giacometti, Matisse, Dalí e altri, incontrati nei locali e nei salotti. Ma il cuore della mostra è proprio Parigi in sé, descritta dalle immagini spesso sorprendenti della Tour Eiffel e dei ponti sulla Senna, dei parchi e delle piazze, ma raccontata soprattutto nei boulevard e nei vicoli, nei bistrot e nelle sale da ballo, negli atelier di moda e nelle case di piacere. Brassaï ci presenta la città nella sua veste gaudente e mondana, ma ne indaga pure gli aspetti più crudi e segreti. Colto, divertente, non si limita a rappresentare l’alta società e le scintillanti serate di gala dove frequenta intellettuali, artisti e belle signore dell’aristocrazia; si addentra negli angoli meno noti e nascosti, negli ambienti più miseri come nei teatri all’avanguardia e nei locali trasgressivi, per raffigurare l’umanità più varia: osti, salumieri, carbonai, ballerine e prostitute, gendarmi in bicicletta e fumatori d’oppio, emarginati, reietti, malviventi d’ogni specie e innamorati di tutte le età.
Ha una predilezione particolare per i bambini. Lui stesso aveva scoperto Parigi da piccolo, tra il 1903 e il 1904. Il padre, docente e studioso di letteratura francese, in quel periodo soggiorna a Parigi per un anno sabbatico con la famiglia, in rue Monge. Anni dopo quei ricordi di un’infanzia giocosa e felice riaffioreranno alla memoria. Si ripresenteranno le immagini che avevano colpito il futuro fotografo e l’avevano fatto sognare, dalle barchette lanciate con perizia sul laghetto del Jardin du Luxembourg alle persone e ai luoghi incontrati durante le lunghe passeggiate cittadine: anziane signore accomodate su una panchina in amabili conversazioni, giardinieri acrobati, lampionai, ma anche ragazzini, che ritrae inosservato. Ammiriamo così la piccina dallo sguardo tenero ripresa su una chiatta, i bambini che assistono incantati in prima fila a uno spettacolo di gatti e topi bianchi, monelli in strada e bambine che giocano con le bambole, fino agli stupendi scatti del 1935 in una scuola materna di Clamart, vicino a Parigi: deliziosi i lettini allineati con i piccoli ospiti nell’ora del riposo e il bambinetto seduto con aria impegnata su un vasino nel bagno dell’asilo. La convinzione di Brassaï era che “tutto può essere banale”, ma “tutto può diventare meraviglioso”. Fossero pure la nebbia e l’acciottolato bagnato dalla pioggia.
Ammetterà con sincerità: “Ho trovato nella fotografia il mezzo per scoprire e catturare il mondo che mi circonda, la città nella quale ho vissuto”. Nel 1949 ottiene la cittadinanza francese. Continuerà fino all’ultimo a osservare la realtà con lo sguardo stupefatto di un bimbo, facendo suo l’insegnamento di Goethe, lo scrittore da lui preferito: “La cosa più alta cui l’uomo possa arrivare è lo stupore”. Una donna elegante ma anche una di malaffare, un ricco borghese come un lacero mendicante, non gli saranno mai indifferenti: proverà sempre “compassione per questa gente”. La morte coglierà Brassaï il 7 luglio 1984 nel buen retiro di Beaulieu-sur-Mer, in Costa Azzurra, nel tepore della luce mediterranea.
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