Ha ragione Stefano Karadjov, direttore di Brescia Musei: “Questa non è soltanto una bella mostra nella quale vedere compendiata l’opera di Joel Meyerowitz, uno dei più grandi fotografi viventi, ma è anche un’occasione per riflettere sull’America, sulla complessità e la ricchezza di sfumature, il fascino e anche i timori che solleva questo grande Paese”.
Certo, per chi ama la fotografia è assolutamente da non perdere. E Meyerowitz è venuto lui stesso in questi primi giorni, a 86 anni, a presentarla a Brescia, offrendo una radiografia accurata e anche molto “filosofica” della sua forma di espressione, di cui pochi sono coscienti.
Il Museo di Santa Giulia ospita (fino al 24 agosto) Joel Meyerowitz, a sense of wonder. Fotografie 1962-2022, a cura di Denis Curti e realizzata in collaborazione con l’archivio newyorkese del fotografo: attraverso 90 opere ne ripercorre l’intera carriera. È l’appuntamento cardine del Brescia Photo Festival, che quest’anno ha per tema proprio gli “Archivi” (in arrivo, dal 12 aprile, anche Giorgio Lotti. Fotografo di un’Epoca, a cura di Renato Corsini e Laura Tenti).
È la prima vera antologica di Meyerowitz mai organizzata in Italia, e inaugura una trilogia “Americana” che nel ’26 proporrà a Brescia Bruce Gilden, colonna dell’agenzia Magnum e, nel 2027, gli Stati Uniti “italiani” di Francesco Jodice. Il catalogo Skira è ricco di immagini e ben stampato: forse però una mostra di questo livello avrebbe meritato qualche testo critico in più.
“C’è una frase di Joel – dice Denis Curti – che mi ha sempre colpito: ‘La fotografia è un’arte dell’osservazione. Mi sono accorto che essa ha poco a che fare con le cose che vediamo, e ha invece tutto a che fare con il modo in cui le guardiamo’. Ovvero ha a che fare con la possibilità che è data agli artisti, ai fotografi di definire il proprio punto di vista, cioè la responsabilità, il coraggio, anche morale, sociale, politico di prendere posizione nei confronti del mondo. E questo Joel Meyerowitz lo ha fatto”.
Negli archivi newyorkesi di Meyerowitz, Curti ha trovato “immagini inaspettate, situazioni “hopperiane”, paesaggi alla De Chirico e nature morte morandiane, suggestioni incredibili che sarebbero state poi riprese anche dal grande cinema, prima di tutto da Wim Wenders: e questa mostra stessa è strutturata un po’ come un film”.
Non ha, infatti, un andamento cronologico, è legata più a scene cardine del suo sviluppo intellettuale e a flashback. Il percorso può persino un po’ disorientare nel suo viaggiare a ritroso: c’è tanta street photography, all’interno della quale Meyerowitz fece il suo ingresso negli anni 60 – con William Eggleston, Garry Winogrand, Lee Friedlander – nel mondo della fotografia urbana, introducendo l’uso del colore. Ma ci sono anche alcuni (molto originali) ritratti, debiti felliniani, e foto-simbolo dell’architettura e del paesaggio contemporaneo.
Straordinarie sono anche le inquadrature che Meyerowitz dedica alla natura, come quelle realizzate a Cape Cod, in Massachusetts, o i cieli italiani e francesi che rivelano il suo lato più contemplativo e raffinato, e di cui, forse non a caso, lui non parla.
Spiega invece: “Io credo che tutti noi abbiamo momenti della nostra vita in cui ci siamo chiesti: come sono arrivato fin qui? In fondo il nostro lungo viaggio è un ‘tour del mistero’”. Racconta un giorno del 1962, “allora ero un giovane art director a New York, e mi capitò di osservare Robert Frank (altro monumento della fotografia americana, ndr) lavorare, doveva fare delle riprese pubblicitarie per un libretto che avevo disegnato io. E ho avuto un ‘colpo di fulmine’: mi sono svegliato all’improvviso e mi sono accorto che la fotografia arresta il tempo. In quel momento ho deciso di chiudere con la mia vita di pittore e di graphic designer, ho preso una macchina fotografica e sono andato fuori in strada per testimoniare cose che sono invisibili nella vita di tutti i giorni, ma che possono essere rivelate quando schiacci il bottone di quell’apparecchio. Da allora non sono più uscito di casa senza avere una fotocamera in spalla, e credo che tutto ciò che ho imparato su me stesso e sul mondo l’ho imparato attraverso di essa. È come se avessi posto una cornice attorno a un istante, e lì dentro ho osservato simultaneamente qualcosa su di me e sul mondo. Questa unione, questa connessione è stata la mia formazione. In un certo senso la fotografia è stata per me un maestro, un filosofo, una guida. Oggi in questa mostra avere la possibilità di vedere tutte queste opere convergere in un’unico cammino, attraverso il lavoro che Denis Curti ha fatto, è per me un’esperienza straordinaria. In questo percorso vedo me stesso, a diversi livelli del mio sviluppo”.
Tutti noi – spiega il fotografo americano – “veniamo al mondo come esseri innocenti, lo osserviamo pezzo per pezzo, e piano piano la realtà ci viene incontro e squaderna davanti a noi il suo mistero, la sua bellezza, la sua offerta di possibilità. Tutte le luci e le esperienze e le emozioni e le perdite vengono mostrate a noi bit per bit, e da questo processo emerge il nostro stesso ‘io’. Questa mostra ha il pregio di descrivere tale percorso: vedere me stesso appeso su questi muri mi dice che questo lungo cammino non è stato solo una fresca lezione di vita, ma una vera gioia”.
Non si tratta tanto – spiega Meyerowitz – di formarsi tecnicamente in un’arte, di praticare un mestiere: “Certo, se tu passi migliaia di ore a fare qualcosa, naturalmente diventerai capace, ma la fotografia riguarda più la consapevolezza, la curiosità, la prontezza nel provare un sussulto (io lo chiamo ‘gasp-reflex’): sei per strada, osservi qualcosa e a un certo punto trattieni il respiro. Questo piccolo invertirsi del flusso d’aria, questa inspirazione – che poi è proprio ciò che noi chiamiamo “ispirazione” – è un riflesso involontario. E quando ciò accade, tutto il tuo essere ti dice che è successo qualcosa che ti ha toccato. Ha toccato non il tuo cervello, ma il tuo intero essere. Nel momento preciso in cui questo succede io sollevo la macchina e scatto. La fotografia è schiacciare il pulsante e lasciar entrare quel flusso di informazioni, e con esso la pregnanza che è racchiusa nella vita umana di tutti i giorni. Fotografare non è tracciare segni su una tela per un mese, come accade in pittura, ma è il momento presente, che può durare un millesimo di secondo: vedi qualcosa che immediatamente dopo scompare, è andato – e te ne accorgi subito. Ma la fotocamera lo ha raccolto e lo custodisce per te”.
Iniziamo la visita dalle straordinarie immagini riprese da Joel a Ground Zero, “una sorta di teatro di guerra dove il tempo era letteralmente sospeso” nota Curti. “È il punto perfetto per cominciare – commenta Meyerowitz –, perché quel momento ha cambiato tutta la nostra vita. Il nostro secolo, ora, ha preso la forma di quell’intervento distruttivo”. È una serie – già vista al Meeting di Rimini nel 2002 – ormai storica, Meyerowitz è stato l’unico fotografo autorizzato a documentare il distretto del World Trade Center nei mesi successivi all’11 settembre 2001.

È davvero un documento della cultura americana, estratto dalla carne della storia proprio in un momento in cui la nazione era ferita, ma unita. Joel racconta che non è stato facile neppure per lui entrare in quel perimetro apocalittico e naturalmente blindato e militarizzato: “Niente foto, amico, questa è una scena del crimine” gli dice un funzionario. Lui invece pensa: “Non possono impedirmi di scattare fotografie: niente fotografie significava nessuna traccia di uno degli eventi più rilevanti mai accaduti in America. Era necessario lasciare una testimonianza delle sue conseguenze, io sapevo che era qualcosa che potevo fare. E dunque l’ho fatto”.
Il fotografo spiega anche bene il passaggio chiave che portò lui e pochi altri a modificare il corso della fotografia mondiale: “Mi chiedevano di usare il bianco e nero, perché la ‘burocrazia’ della fotografia di New York non credeva nel colore, pensavano fosse qualcosa di commerciale, troppo sgargiante, al massimo per dilettanti, per amateurs, e che invece il bianco e nero fosse la sostanza vera della fotografia. Io mi chiedevo perché: il mondo è a colori!, dicevo. Volevo vedere i capelli rossi di questa donna nera, che ne fanno un’immagine quasi surrealista. Così ho sentito che dovevo tenere duro sul colore. Ma contro di esso c’era un pregiudizio”.
Il percorso mette in mostra coppie di foto fatte nello stesso luogo e nello stesso momento da Meyerowitz, una con la macchina caricata con la pellicola in bianco e nero e l’altra a colori: “Se noi pensiamo – dice – che la fotografia descriva il mondo, allora il bianco e nero non lo descrive tutto, ci fa perdere delle sfumature importanti”.
Fa notare, in una foto scattata nel ’67 in Florida, il riflesso sotto un dirigibile della Goodyear sospeso in aria: “C’è del verde in quest’ombra, perché la materia dell’aeromobile riflette il colore dell’acqua dell’oceano che c’è sotto, e questo è un contenuto che non puoi percepire se guardi la foto in bianco e nero. Ho sentito che stavamo perdendo un contenuto emozionale che il colore porta con sé, un’atmosfera”.
Interessanti anche le foto realizzate nel 1967 quando, rientrato negli Stati Uniti dopo un viaggio di un anno in Europa, Joel trova il suo Paese in angoscia per le notizie che provenivano dal Vietnam. Lui non va sui terreni di battaglia, decide di restare in patria e rivolgere lo sguardo su chi la guerra la guarda in tivù: “Tornando negli Stati Uniti – racconta –, ho visto il mio Paese andare giù. Durante la guerra del Vietnam l’America ha cominciato a decadere, il ‘grande eroe’ iniziava a venir meno. Questo processo è cominciato allora, e oggi vediamo cosa sta succedendo con Trump presidente, sta cambiando drasticamente tutto: mi piacerebbe anche testimoniare questo passaggio con la fotografia, ma al tempo stesso sono felice adesso di vivere molto in Europa”.
Come dice Karadjov, “questa mostra è straordinariamente appropriata al tempo che stiamo vivendo. È dedicata a Giovanni Chiaramonte, il grande intellettuale e fotografo, mancato recentemente, grazie al quale più di vent’anni fa sono entrato in contatto con il lavoro umanistico di Joel Meyerowitz”.
Assolutamente da vedere il focus dedicato ad alcuni degli autoscatti che Meyerowitz si fece, giorno per giorno, durante il lockdown del 2020: un esempio di padronanza del linguaggio fotografico, di inventiva e di autoironia da vero maestro (è “montato” anche in un filmato di 7 minuti).
Da menzionare infine Mario Govino, eccezionale stampatore milanese che ha realizzato fisicamente tutti i pannelli della mostra, con tecniche, carte e misure che sono anch’esse una passaggio nuovo nell’evoluzione dell’“archivio Meyerowitz”.
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