“Gabriele Basilico è uno di quei fotografi di cui si vede l’occhio che guarda, così come in certi scrittori si sente la voce che parla. In lui la città è anzitutto lo sguardo che la osserva e l’animo che la vive. Forse per questo le tante metropoli che negli anni ha osservato e fotografato oggi rimandano come uno specchio la sua immagine, le sue immagini. Come nel celebre racconto di Borges dove un pittore dipinge paesaggi, regni, montagne, isole, persone e alla fine della sua vita si accorge di aver dipinto, in quelle immagini, il proprio volto: scopre che quella rappresentazione della realtà è il suo autoritratto”.
L’incipit del saggio con cui Corrado Benigni, il curatore, presenta in catalogo la mostra Gabriele Basilico. Ambiente urbano, 1970-1980 aperta (fino al 10 novembre) a Bergamo grazie a Fondazione Mia, fotografa bene la questione. Ha perfettamente senso anche dopo aver visto, magari, la grande mostra che Milano gli ha dedicato fra il 2023 e il ’24, alla Triennale e a Palazzo Reale, venire a vedere questa serie (50 foto in bianco e nero) sostanzialmente inedita che è un po’ il prequel della carriera di uno dei maggiori fotografi europei degli ultimi cinquant’anni: essa anticipava di poco la notissima Milano. Ritratti di fabbriche (1978-1980) ed è un passaggio utile per capire il senso del suo approccio alla città, da sempre tema centrale del suo lavoro.
Ha ragione Fulvio Irace, nel secondo saggio in catalogo, a parlare di un lavoro di “archeologia” ancor più che di architettura, che è il linguaggio formale di Basilico. Si nota l’eco di un maestro come Paolo Monti, certamente, eppure l’unico “equivalente” – come direbbe Alfred Stieglitz – che può venire in mente, proprio nello shift ideologico e sociale, nel mutamento di paradigmi in atto proprio in quegli anni, è il mondo rurale che il fotografo bergamasco Pepi Merisio consapevolmente decise di ritrarre quando si accorse che era destinato a scomparire entro breve tempo. La Milano di Basilico, la Milano dei boomers, sembrava ai nostri occhi molto meno “vecchia”, molto meno fragile ed esposta ai venti della Storia delle case rurali e dei funerali ancien régime di Merisio, eppure, con una certa sorpresa, osservando questa serie oggi esposta sui muri dell’ex monastero di Astino, ci accorgiamo che è diventata anch’essa, nell’arco di pochi ulteriori decenni, un reperto archeologico, un ambiente della memoria. Da Quarto Oggiaro al Nuovo Quartiere Gallaratese, con il suo anfiteatro di cemento, da Baggio alla ferroviaria Bovisa, a piazzale Corvetto, nelle foto scattate da Basilico con la Nikon F (il banco ottico era ancora di là da venire) sono in vista i pali della luce e i fili elettrici, i binari fuori uso e le ciminiere, smagliature della rapida crescita del tessuto della città nei due decenni precedenti. Certo, dietro questa sequenza c’è tutto lo “stile documentario“ di Walker Evans, ma a ben vedere c’è dell’altro: sono gli anni delle occupazioni studentesche, come ricorda Irace, dell’architettura sociale e utopista e Basilico si aggira per via Orti, per Porta Romana, evitando con cura i luoghi comuni (erano i cosiddetti “anni di piombo” e subito dopo quelli della “Milano da bere”), raccogliendo un “involontario surrealismo urbano”.
Diceva Gabriele, con quella sua strana voce dolce e roca: “Io documento il presente, e il presente ha le sue rovine e anche le sue bellezze”. Ce lo indicano le foto dell’Isola e di Porta Nuova, che oggi sono diventate il biglietto da visita della Milano modaiola, luoghi che invece in queste foto degli anni 70 rivelano la natura di quartiere popolare, le case operaie, gli autobus di linea, i ragazzini con i calzoni corti, gli uomini in cappello e cravatta di fronte alla scritta sul muro “prendiamoci tutto”. Basilico si aggira per i cortili di Quarto Oggiaro, falansteri funzionali di fronte ai quali giocano ragazzini in canottiera con la cartella al collo e la fionda tra le mani; il quartiere Ticinese sembra un paesotto della bassa, sull’Alzaia del Naviglio Grande gli operai sono in pausa con il cappello di carta da giornale in testa; e poi ancora via Melchiorre Gioia, oggi terra di grattacieli dai toponimi anglofili, attraversata da una strada sterrata, un quartiere Isola irriconoscibile, in una città in cui le ferite della guerra appaiono ancora coperte ma non del tutto suturate. Davanti ai palazzoni dell’edilizia popolare le scritte di Lotta continua invocano un affitto proletario che non costi più di “un 10% del salario”; Avanguardia operaia reclama “prezzi ribassati” per la spesa. Ragazzini posano seminudi per strada in via Argelati, dove s’andava in piscina per poche centinaia di lire. Un cane gira da solo senza guinzaglio giusto dietro Porta Garibaldi, un posto che oggi Google ci indica come “area molto frequentata” e che invece cinquant’anni fa esibiva il vuoto di deserte architetture industriali, cancelli e vetri rotti.
Basilico si inoltra per strade poco note di Milano, non siamo in piazza San Babila o in Cordusio o in “Montenapo” ma in via Guglielmo Pepe, al quartiere Vigentino, in via Orobia, via Barletta; fotografa ciminiere in viale Luigi Sturzo, dove oggi staziona sfaccendata la Milano degli aperitivi serali. E poi ancora via Tucidide, via Riccardo Pitteri, via Bovisasca, via Enrico Cosenz, via Romolo Gessi: tutta una città di cui se andassimo a cercarla oggi quartiere per quartiere, incrocio per incrocio troveremmo in piedi ben poco.
Basilico, dice Corrado Benigni, “è tra gli autori italiani più indagati e studiati degli ultimi decenni, e tuttavia il suo archivio è un pozzo inesauribile di idee e di materiali”. Il curatore si è addentrato “nella miniera” di negativi e provini ripassandoli uno per uno assieme a Giovanna Calvenzi, moglie del fotografo e famosa photo-editor (Sette, Vanity Fair, Sportweek) e ad Andrea Zanini: “Sono emerse molte fotografie inedite, origine di altre famose che realizzerà nei decenni successivi”. Il bel catalogo (Electa) ne pubblica il doppio rispetto alle immagini esposte in mostra.
“Sono scatti dell’inizio della sua carriera” dice Giovanna: “Una serie che aveva già questo titolo, ‘Ambiente urbano’, alla quale Gabriele teneva enormemente ma che non aveva mai affrontato in modo sistematico. Confesso che allora, guardando queste immagini che andava realizzando, mi chiedevo: ‘Cosa gli viene in mente di andare a fotografare questa roba?’. Mi sembrava di scarsissimo fascino. A posteriori invece trovo che questo sia un omaggio alla sua città come raramente ne ho visti. Una Milano che allora era ancora un villaggio, un insieme di quartieri, certamente irriconoscibile rispetto a ciò che è diventata oggi”.
Basilico aveva circa trent’anni eppure il suo è già un modo di fotografare maturo: “Credo che avesse una capacità innata di leggere la realtà. Il suo primissimo lavoro è del ’69, allora era studente a Glasgow. Aveva un’ora di tempo per fotografare un quartiere che doveva essere distrutto: scattò un solo rullo, di 36/38 fotogrammi, e non ce n’è uno da buttare via” dice Giovanna, “sono tutte inquadrature impeccabili. Anni dopo, quando abbiamo pubblicato un libro su quel lavoro, ci siamo resi conto di questa capacità assoluta e inusuale di vedere”. Nonostante avesse ancora “una mentalità da fotogiornalista, non ci sono cinque negativi in fila della stessa situazione, al massimo due. Non è un modo di lavorare da reporter: Gabriele aveva già la testa di un architetto”.
La figura umana è ancora ben presente in queste immagini di un autore che diventerà famoso per i suoi spazi ortogonali e deserti, quasi astratti, sempre perfettamente disegnati: “Certo, Basilico è il fotografo degli spazi vuoti, lui stesso lo diceva: ‘Io fotografo il vuoto come protagonista di se stesso’. Ma è comunque un omaggio all’uomo il suo. L’assenza di figure gli permetteva di leggere con più rispetto lo spazio costruito: questo era il suo obiettivo. Nei primi anni, però, non aveva né questa intenzione né questo rigore. Quando la città era invasa dai bambini che giocavano in strada (oggi totalmente scomparsi) li riprendeva. Però cercava di dare un ordine anche a queste figure”, le sue non sono mai “istantanee”.
Lo diceva anche un video della mostra in Triennale, firmato dalla stessa Calvenzi e dal fotografo Toni Thorimbert: sono “ritratti”, sì, quelli di Basilico, anche quando fotografa capannoni e ciminiere. Ma se si osservano le sue immagini un po’ a fondo ci si accorge che non è un documentarista: tutto questo paesaggio, in qualche modo, lui se l’è inventato. Prima di lui, per i nostri occhi, per i nostri cervelli, non esisteva.
È un autoritratto, appunto.
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Gabriele Basilico. Ambiente urbano 1970-1980. Mostra fotografica a cura di Corrado Benigni. Monastero di Astino (Bergamo), 14 giugno-10 novembre 2024
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