È poco più di un bambino, ha solo 14 anni, quando prende in mano la prima volta una macchina fotografica. Fino ad allora si era limitato ad aiutare il padre, fotografo del paese, nella camera oscura, che considerava la sua “stanza segreta”, il suo “tesoro”. Poi nel 1943 a Casarsa della Delizia, in provincia di Pordenone, dov’era nato il 12 gennaio 1929 e dove ancor oggi vive e lavora, irrompono le truppe tedesche di occupazione; così nel mirino del suo obiettivo finiscono i suoi primi soggetti, gli austeri ufficiali della Wehrmacht, che andavano a farsi ritrarre in studio. Da allora Elio Ciol, oggi 95enne, non ha più smesso di “raccontare” l’amata terra friulana, i campi, le pievi, i contadini, la gente comune, i paesaggi innevati, le nebbie, come pure Venezia e la laguna veneta, ma soprattutto Assisi, suo luogo del cuore, dove nel 1963 conosce la futura moglie.



I suoi scatti sono pure destinati a Trieste, Palermo, Amalfi, Roma, Milano e la Bassa milanese, dove i ragazzi di Gioventù Studentesca andavano a far caritativa; realizza reportage in tutto il mondo, dall’Armenia alla Siria, dal Kenia all’India; immortala personaggi famosi, come Pier Paolo Pasolini, conosciuto da ragazzo, “un amico e un riferimento”, il pittore William Congdon e padre David Maria Turoldo; illustra più di 200 libri. Collocato tra i più grandi fotografi a livello internazionale, ha vinto numerosi premi, compreso nel 1997 il World Press Photo. Sue opere sono esposte nei più celebri musei, dal Metropolitan Museum of Arts di New York al Victoria and Albert Museum di Londra.



“Mi sono sempre chiesto che cosa riescono a comunicare agli altri le mie foto, quali pensieri, quali emozioni”, si è domandato qualche tempo fa Ciol. “Mi chiedo ancora: gli occhi degli altri in queste mie foto cosa vedono?”, ha aggiunto. E soprattutto, “che cosa raccontano ai giovani che stanno vivendo la nuova era della comunicazione? Dicono ancora qualcosa di rilevante a loro?”. Sembra proprio voler rispondere a questi interrogativi una mostra straordinaria, allestita in un luogo inconsueto, l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dal titolo Elio Ciol. Orizzonti di luce (aperta fino a dicembre, ingresso gratuito). Qui, dove vivono le loro giornate frotte di ragazzi che studiano insieme, danno esami, conversano tra di loro, si fanno compagnia, sono esposte 130 magnifiche fotografie in bianco e nero del maestro friulano, una selezione accurata tra le migliaia da lui scattate, una sintesi della sua opera e della sua lunga carriera che costituisce, per chi si ferma ad osservare, un’autentica lezione di poesia e di bellezza. Peccato che la mostra, certamente rivolta innanzitutto agli studenti che frequentano la Cattolica, non sia purtroppo facilmente individuabile e fruibile dal visitatore esterno, perché si sviluppa in vari ambienti dell’ateneo separati e distanti tra di loro – gli ambulacri, lo scalone d’onore, la cappella San Francesco, la sala di lettura della Biblioteca centrale – ma non è segnalata in modo chiaro e visibile all’ingresso di Largo Gemelli; solo la cortesia del personale, se interpellato, consente di raggiungerla. Insomma, una meraviglia “nascosta”.



Come nascono lo stile assolutamente unico, il linguaggio evocativo, personale e inconfondibile di Elio Ciol, con i suoi precisi tagli geometrici, l’occhio partecipe e attento al mistero della realtà che lo circonda, cose e persone? Lo racconta lui stesso. Dopo un anno che maneggiava, da dilettante e giovanissimo aiutante di bottega, un apparecchio fotografico, è nel 1944 che impara a “creare immagini”, grazie a un inaspettato “maestro dello sguardo”, un ufficiale medico nazista che “aveva una Leica e ci dava da sviluppare i negativi”.

Proprio sviluppando e stampando quelle fotografie comprende, appunto, la centralità dello “sguardo” rispetto al soggetto. Così, dirà poi, “ho imparato a vedere. Conoscevo luoghi e persone fotografati dall’ufficiale tedesco, eppure tutto mi sembrava nuovo, come se attraverso quelle immagini vedessi per la prima volta tutto quello che mi stava intorno e la gente che incontravo. Con quella luce, quel taglio, tutto acquistava una dignità fino ad allora ignorata. E così vidi incantato il mio paese, i contadini – per la prima volta mi resi conto delle rughe sui loro volti affaticati – il sorriso dei bambini. Scoprivo la mia gente attraversi gli occhi di uno straniero”. Nel suo lungo e ricco percorso creativo, ci sarà spazio sia per le memorie della civiltà contadina friulana come per le città e i luoghi del lavoro e dell’arte, oltre che per i ritratti corali, nella semplicità di situazioni della vita quotidiana; ma è soprattutto nei numerosi paesaggi che possiamo cogliere e apprezzare l’assoluta originalità dell’artista di Casarsa.

Un tratto distintivo della fotografia di Ciol, presente in quasi tutte le mostre allestite nel mondo su di lui, quasi duecento, emerge con evidenza nei paesaggi, di cui fissa con l’obiettivo la regolarità delle forme e dei contorni. “In tanti mi chiedono del mio fotografare le linee essenziali del paesaggio”, afferma. “Anche questa caratteristica del mio lavoro nasce nell’infanzia. Da ragazzo uscivo di corsa dalla camera oscura, dove avevo passato ore, per buttarmi nel sole del cortile, e non avevo altra difesa che socchiudere gli occhi. È così che ho scoperto la geometria della natura. La luce era forte e dovevo tenere le palpebre serrate: si mostravano allora solo le linee essenziali, come mappe di chiaroscuro, l’ossatura interiore delle creature e del Creato”.

Ammette: “Ho sempre voluto trasmettere la serenità”. E anche quando coglie una situazione di povertà, ce la fa apparire “sempre vissuta in modo dignitoso, ma anche allegro, spensierato, leggero”. Pur dotato di talento e di una tecnica eccezionale (è passato con disinvoltura dall’analogico al digitale), non ha mai accettato di lavorare per la moda o la pubblicità, preferendo rimanere legato a una dimensione intima e lirica della sua arte, perché ciò che gli interessa va ben oltre la superficialità di immagini usa e getta. Ciò che conta, in definitiva, è il “vero”. Infatti, per Ciol “il vero ha un fascino estremo e la fotografia è un modo più profondo di vedere la realtà”. Per questo fin dagli inizi del suo percorso ha scelto di fotografare “cose semplicissime”, dal momento che “in natura e in arte c’è un solo imperativo categorico: l’armonia”.

Quando gli è stato chiesto quanto c’è di spirituale nella sua vasta produzione artistica, ha risposto: “Molto, spero. La contemplazione, capire perché sono qui. Il senso religioso delle cose mi avvolge”. Nel 1977 va in Iraq per un libro fotografico. “A Mosul”, ricorda, “non c’era posto in albergo. Mi misero a dormire su una branda all’aperto. Fu la più bella notte della mia vita. Il viso nel cielo. Strati di stelle, una quantità indescrivibile. Com’è grande l’infinito”. E in un’altra occasione, alla richiesta su come si immagina Dio, ha ammesso: “Non ci riesco”. Per poi precisare: “È presente, mi pervade. Non siamo noi a comandare”.

La mostra Chagall sogno d’amore recensita dal Sussidiario il 10 ottobre 2024, ospitata nel castello dei conti Acquaviva d’Aragona di Conversano (Bari), è stata prorogata fino al 12 gennaio 2025.

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