Già cinquant’anni fa Ugo Mulas (1928-1973) definiva la fotografia come “un’invenzione mirabile alla quale hanno collaborato i cervelli più straordinari, che affascina le menti più fantasiose e la cui effettuazione è alla portata di tutti gli imbecilli”. E nel suo celebre testo La fotografia (Einaudi, 1973) denunciava un certo tipo di professionismo secondo il quale “una foto non contava tanto per la sua verità, quanto per l’effetto, per il colpo che poteva produrre sulla fantasia del lettore. Da allora questo gioco non ha fatto altro che degenerare, non solo nel fotogiornalismo ma in ogni campo dove la foto è mercificata”. Era uno che parlava schietto, come si vede, e che vedeva lontano. Oggi che si fotografano pizze smangiucchiate e boccali di birra e che le “foto” si inventano con l’intelligenza artificiale, cominciamo a capirlo.
La mostra a Milano
Ha un bel titolo la mostra Ugo Mulas. L’operazione fotografica (a Palazzo Reale a Milano, fino al 2 febbraio), che chi ama la fotografia non può perdere, perché sta davvero alla radice del nostro modo di pensarla e di farla. Bello anche tutto l’apparato grafico, che rende giustizia all’ossessione, di Mulas e del suo stampatore Eugenio Cassina, per un bianco e nero densissimo, ricco di toni ormai tecnicamente per noi inarrivabili: “Erano incontentabili”, ricorda Uliano Lucas, “stampavano e ristampavano fino a quando non trovavano le gradazioni e i contrasti ottimali”.
Ricco il catalogo (Marsilio Arte), con contributi di Denis Curti, il curatore, di Alberto Salvadori, direttore dell’Archivio Mulas, ma anche di fotografi importanti come Berengo Gardin, Scianna e, appunto, Lucas. Ma il cuore di questa operazione sono proprio le 250 fotografie di Mulas, spesso straordinarie, appartenenti a generi anche molto diversi, che avrebbero avuto un grande futuro: dalla Milano notturna e povera degli anni 50 agli straordinari ritratti di personaggi famosi, dalla street photography per le vie di New York agli artisti all’opera nei loro atelier, dagli interni di locali notturni “hopperiani” ai “ritratti di fabbriche” (neanche Gabriele Basilico è nato per caso).
Mulas, uno dei massimi fotografi italiani, morto di cancro a 45 anni, era milanese di cultura ma di sangue, come dice il nome, era sardo. Era nato nel 1928 a Pozzolengo, nel Bresciano, dove il padre, contadino, si era trasferito dall’Isola in cerca di miglior fortuna. Dopo il liceo classico a Desenzano del Garda Ugo si era trasferito a Milano, dove iniziò a lavorare per mantenersi agli studi di giurisprudenza. Senza terminarli, nel ’51 si iscrive a un corso serale di disegno di nudo all’Accademia di Brera e inizia a frequentare il Bar Giamaica (con la “g”), luogo di ritrovo di intellettuali e artisti. I suoi inizi come fotografo, autodidatta, hanno l’aria di piccoli reportage sociali, ma dai toni intimisti, distanti dalle mode dell’epoca; subito in polemica, anzi, con l’idea di Cartier-Bresson del “momento decisivo” che il fotografo dovrebbe cogliere con prontezza: le sue sono immagini melanconiche, liriche, che ricordano piuttosto Brassaï.
Basta quella di un uomo che si accende una sigaretta proprio all’interno del Bar Giamaica, datata 1953/’54, per capire l’assoluta originalità di Mulas. Nessun altro l’avrebbe scattata: del locale e dei suoi avventori si vede molto poco, data anche la scarsa sensibilità delle pellicole dell’epoca: in condizioni di luce bassa il diaframma della macchina va aperto al massimo e la profondità di campo si fa ridottissima, alle spalle dell’uomo ma anche davanti a lui non ci sono che ombre sfuocate. Il tono dominante è un nero intenso, all’interno del quale solo la bocca e il naso sono ben leggibili, e la fiamma che si è appena accesa in cima al fiammifero, con quel suoi fiotto di luce apre un “buco” bianco proprio al centro dell’immagine, all’interno del quale l’occhio non può leggere nulla. Nel limitato spessore di questa ripresa, c’è il minimo immaginabile di informazione materiale, i dettagli della scena pescano quindi nel lago della nostra immaginazione. L’unica cosa che resta impressa sulla pellicola è lo scatto di quel gesto, e l’atmosfera, gli occhi dell’uomo alle prese per un istante con qualche pensiero che abita la sua mente: “Volevo vedere – fu il commento di Mulas – fino a che punto si poteva fare una fotografia con la sola luce di un cerino”. Grande immaginazione, introspezione, poesia, esplorazione dei confini della tecnica: c’è tutto Mulas in questa immagine.
L’ampia retrospettiva a Palazzo Reale, curata magistralmente da Denis Curti, è una mostra rigorosa, molto “milanese” nella sua struttura, che ci porta alle radici della fotografia contemporanea, di cui Mulas non solo è stato il vero maestro, ma sembra aver affrontato in modo sorprendentemente precoce i nodi chiave. Curti, che ha lavorato per anni sul suo archivio, lo descrive come un uomo “generoso, inclusivo, sperimentatore, incoraggiante verso tutti. Geniale. Curioso e severo, soprattutto bello, e non solo perché circondato da tanta bellezza”. Lucas ricorda che “Mulas arrivava dalla poesia. Era un autodidatta, ma colto, dalla mente analitica”, il suo “è un lavoro ancora oggi dalla forza visiva e concettuale dirompente, che all’epoca rappresentò anche un momento di riscatto per la fotografia e i fotografi, che in quegli anni erano poco considerati”.
Gianni Berengo Gardin confessa che di fronte a Mulas lui era spesso in soggezione (Berengo Gardin!). E racconta una giornata che passarono insieme a Venezia, nel 1962: “Eravamo in Piazza San Marco. Non so come ci ritrovammo seduti al tavolo di un caffè con Man Ray. Io ero rapito. Mi sembrava di vivere un sogno. Pendevo dalle loro labbra. Stavo ascoltando racconti che si potevano leggere solo sui libri. Fu un pomeriggio indimenticabile”.
“In pochi anni – commenta Denis Curti – Mulas era riuscito a costruire delle relazioni ad alto livello, tra grandi artisti italiani e anche internazionali: registi, artisti, scrittori, poeti. Io credo che la sua grandezza si possa e si debba ricercare nelle sue frequentazioni: che Ugo Mulas sia un po’ la somma degli amici che ha avuto. Al Bar Giamaica incontrava scrittori come Luciano Bianciardi, artisti come Piero Manzoni, fotografi come Mario Dondero e Alfa Castaldi. Con la sua capacità empatica è riuscito a diventare amico di tantissimi grandi, da Fausto Melotti a Marcel Duchamp, che lo aiuta, lo assiste, lo fa crescere. Quando lui gli mostra il lavoro sulla Milano di quegli anni, qui esposto, Duchamp gli dice: ‘Guarda che stai facendo qualcosa di speciale. Tu non sei un narratore, non sei un reporter, sei un artista’”. Al Giamaica – prosegue Curti – “tutte le sere qualcuno portava qualcosa, un libro, una rivista, dei giornali internazionali. Era un’occasione di continuo scambio. Uliano Lucas all’epoca era un ragazzino: ‘Io – mi ha raccontato – non riuscivo ad alzarmi da quei tavolini. Parlavamo tantissimo di arte, di fotografia… Poi alle 6 del pomeriggio andavamo tutti alle inaugurazioni. E il giorno dopo si parlava della mostra che avevamo visto’. Mulas era uno che studiava, che andava al cinema, a teatro, comprava i libri. Non ha fatto nessuna scuola di fotografia ma la sua vera formazione è legata alla grande capacità che aveva di creare relazioni”.
A un certo punto Mulas si mise in testa di fare un lavoro fotografico sulle poesie di Eugenio Montale, “sfida non da poco – nota Curti –, anche perché lo scrittore non era affatto ben disposto: ‘Ho visto – gli dice Montale – decine di lavori di fotografi che vogliono trasformare in immagine la mia parola, ma non è possibile’. Mulas però ci prova lo stesso, va in Liguria, nei luoghi dell’infanzia del poeta, che, fra l’altro, niente avevano di spettacolare. Scatta considerando la necessità di un tempo prolungato, di un’attesa”. Non tenta di fare un ritratto delle situazioni di cui gli Ossi di seppia parlano, ricrea piuttosto lo stesso paesaggio morale, la tensione psichica e lirica che lo abita: “Ed è per questo che riesce davvero a restituire Montale” conclude Curti. “Alla fine Mulas quella scommessa la vince, lo stesso poeta quando vede le sue foto ci si riconosce, e glielo dice”.
La mostra a San Fruttuoso
Oltre alla mostra milanese, fino al 16 febbraio il Fai, in collaborazione con l’Archivio Ugo Mulas, ospita presso l’Abbazia di San Fruttuoso a Camogli una piccola ma preziosa mostra intitolata Ossi di Seppia. Ugo Mulas, Eugenio Montale, che espone proprio quel lavoro di cui parla Denis Curti: a cura di Guido Risicato, 23 fotografie in bianco e nero scattate nel ’62 a Monterosso, nelle Cinque Terre, luoghi che hanno ispirato le atmosfere della prima raccolta del poeta, Ossi di seppia, passaggio chiave della poesia italiana del Novecento. Per Stefano Verdino, docente di letteratura italiana all’Università di Genova, “le qualità sia dell’inquadratura sia della luce di questi scatti hanno un che di perentorio, che calza mirabilmente, in termini non illustrativi ma di sintonia espressiva con il verso sempre nitido e tagliente del primo Montale”.
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