Posseduti da Pina. Capelli radi, il sorriso timido, la sigaretta tra le dita. Magra come un asceta, profonda come un pozzo artesiano. Pronta a risucchiare i suoi danzatori dentro il mare imprevedibile dei suoi occhi azzurri. Burrasca, calma piatta, brezza leggera. Né meteo, né orologio. Il suo teatro-danza? “Amore” prova a spiegare nel suo “Pina” il regista Wim Wenders. Pure lui posseduto dalla Bausch, la rivoluzionaria coreografa tedesca scomparsa il 30 giugno del 2009, alla quale ha voluto dedicare il suo ultimo film. Eccola apparire, nella prima inquadratura, modulando con la voce roca il segreto della sua arte “quando le parole non sono sufficienti per esprimere, allora è il momento della danza”. Incipit impegnativo per la macchina da presa di Wenders, che taglia e cuce riprese dei suoi celebri Stücke, pezzi di danza, da Nelken, Café Müller, Kontakthof, Vollmond ad interrogatori in stile “poliziesco” dei suoi danz-attori. E se questi provengono da tutto il mondo, la fucina delle sue creazioni è e resta Wuppertal, centro operaio della valle della Ruhr in Germania. Gli esterni del film sono girati qui o nei dintorni. Tra treni che scivolano sospesi alle rotaie, semafori e boschi-acquari pronti a schiudersi dietro grandi vetrate. Banchi di sabbia sferzati dal vento, giganteschi ruderi di archeologia industriale che sembrano innalzarsi “sofferenti” verso il cielo, come un’anziana ballerina sulle punte, dopo aver infilato nelle scarpette di raso, fette di carne sanguinolenta.
La danza come rito sacrificale è, perciò, amore? Di certo, rito e film per adepti, impossibile da spiegare neppure con l’ausilio della terza dimensione. “Bellissimo” per Maurizio Porro sul Corriere della Sera, “noioso” per Mariarosa Mancuso sul Foglio.
Tolgo gli occhialini di plastica specchiati, vedo spettatori d’ogni età e peso, penso alla “Pietà” del Michelangelo. L’étoile Alessandra Ferri diceva che la sua danza nasceva da questa celebre opera scolpita nel marmo. Intravedo il corpo di Pina, pelle scolpita su esili ossa, velate da una tunica bianca. Danza ad occhi chiusi in “Café Muller”, snodando dolente le lunghe braccia attorno al viso, quasi a cacciare e scacciare, schiaffi e carezze nell’aria. Forse come mimava da bambina, nascosta in silenzio sotto i tavoli – i suoi avevano un locale a Solingen -, mentre osservava la folla colorata di sempre nuovi avventori, pronti a gioire o a stramazzare per terra, senza alcun motivo apparente, come nella sua piéce magistrale.
Corpi e terra. Portata a chili sul palcoscenico della sua “Sagra della Primavera”. Sulla musica di Stravinskij che fa rimbombare il battito del cuore, l’Eletta avanza tremante il drappo rosso della vittima sacrificale, quasi a volerlo donare a ciascuno di noi… Corpi e acqua. Spruzzata ad ettolitri sulla scena di “Vollmond”, energia di vita, pronta a fluttuare in onde di desiderio, contro il macigno nero, anch’esso scolpito, del destino. “Balliamo, balliamo altrimenti siamo perduti!”… recita una voce, mentre scorrono i titoli di coda.
La coreografa tedesca, scomparsa tre anni fa, rivive nella pellicola di Wim Wenders, grazie alle parole e ai corpi in movimento del suo erede artistico: la compagnia Tanztheater Wuppertal Pina Bausch.