Di Francesco Gazzara si conoscono e si stimano le varianti strutturali apportate a riletture peraltro fedeli e rispettose del repertorio storico dei Genesis. Ne avevamo parlato su queste pagine all’inizio dello scorso anno in occasione del secondo capitolo di quelle digressioni.
In questa sede e in questa sorta di anno che segue quello che storicamente potrebbe essere riguardato come un nuovo anno zero dell’umanità, Gazzara si incarica di far conoscere al sincero e assiduo appassionato di musica, quello che da circa un quarto di secolo è l’area creativa preferenziale della propria proposta artistica. I suoni e le melodie di certo Sudamerica brasiliano e zone limitrofe mischiati a jazz, soul e al portamento patinato della lounge music.
Qui il cognome del protagonista va persino oltre il progetto di impronta prevalentemente personale e finisce per funzionare come monicker ancora di più che nelle uscite dedicate alla grande band inglese. I compagni di viaggio coincidono in parte con quelli conosciuti su quei dischi – tra gli altri Massimo Sanna, Mauro Mirti a completare il trio oltre a Dario Cecchini rispettivamente a basso, batteria e strumenti a fiato – differente ne è il contenuto. O meglio si tratta di un’area musicale distinta ma che – nella lettura evolutiva di Gazzara – condivide con quella dei Genesis particolari momenti di interesse e gusto per armonie inusuali e soluzioni composite.
E’ così che in un doppio album come “The Bossa Lounge Sessions” diviso in un disco di performance live e un altro di registrazioni in studio, vengono spalmate esecuzioni che corrono lungo un arco di tempo che complessivamente va dal 1998 al 2020. Grossomodo quanto la durata della carriera dei Gazzara.
Sull’altro versante l’intima natura della proposta musicale. Se è indubbio che l’approccio prevalente lascia spazio a una musica soft che accompagna il relax serale o da weekend, è comunque rimarchevole quel terzo di durata riservato a esperimenti e crossover di varia forza e grado. Così se l’opzione rilassata la fa da padrone in episodi live come Our Man in Rio, Havana Strut, La Isla del Amor o in studio come Black Jack, Lady (Hear Me Tonight) e Bahia Moon, non mancano le cosiddette isole intermedie dove in una sezione e nell’altra emergono melodie di prima scelta come Bossa Rouge, O Passarinho e We Had a Ball.
Al culmine del percorso le contaminazioni raffinate e ambiziose con il proprio e l’altrui repertorio nella sezione live, a partire dalla preziosa reintepretazione della steelydaniana Josie, fino alle escalation armoniche dell’autografa Point of Departure e del reperto d’alta scuola Butterfly rispolverato dall’Hancock della seconda maniera electro-funk. Quella da studio riserva per contro, oltre alla sinuosa rilettura della Song For My Father di Horace Silver, le migliori puntate creative del titolare del progetto con le squisite trasvolate in area fusion di Portuguese Soul, End of The Road e la stimolante alternanza armonica di Orinoco.
In definitiva una bella panoramica in un percorso che ha prodotto un rilevante numero di dischi e una dimostrazione di talento e alto artigianato in un’area musicale da sempre oggetto di fertili e incessanti manipolazioni.