Il professore, anzi “il Maestrone” come viene affettuosamente soprannominato, sale in cattedra. Non è più quella dell’aula dove insegnava agli studenti americani di Bologna quando già aveva cominciato a fare dischi e concerti. E’ una piantana in una bocciofila lungo il Naviglio Martesana, vecchia Milano popolare, come popolare è sempre stato lui che passava le serate a giocare a carte all’osteria, e come popolari sono le canzoni del suo nuovo, inaspettato disco, Canzoni da intorto. Già, perché esattamente dieci anni fa ci aveva detto quando uscì il disco L’ultima thule, che di dischi non ne avrebbe fatti più, e neanche concerti. Un ritiro alla vita privata, giusto e meritato, interrotto da questa raccolta di canzoni pubblicata a 82 anni. Perché dalle canzoni non si può stare lontani: “Non ho mai detto che avrei smesso di cantare” spiega “di scrivere canzoni nuove sì, semplicemente perché non ci riesco più”.



E canta Francesco Guccini, in questo disco, la voce a tratti spezzata e affaticata dall’età, ma così è ancora più emozionante. Sembra il pensionato dell’omonima canzone, o anche Il frate.

Ma soprattutto Guccini è un fiume in piena: trattiene il centinaio di giornalisti accorsi da lui in questa bocciofila per oltre un’ora, nonostante come suo stile, quello stile che lo ha fatto sempre amare, attacchi con fare annoiato: “Ho già fatto 16 interviste tutte con le stesse 16 domande”. I giornalisti italiani d’altro canto sono quello che sono, e quando il conduttore (la figlia di Giorgio Gaber, non uno qualunque) dichiara finita la conferenza stampa, lui esplode in un “Oh! Che peccato!”.



Eppure ci ha dato dentro tutto il tempo con gusto e divertimento, prendendosi anche un quarto d’ora per rispondere a ogni singola domanda, con foga e passione, raccontando come solo lui sa fare, aneddoti, riferimenti storici, politici, personali (“Non ero ancora iscritto alla Siae e Maurizio Vandelli (dell’Equipe 84 che la incise) si intestò Auschwitiz: non mi ha mai dato una lira”). Nonostante il grave problema alla vista Guccini appare in grande forma: è sempre quel gigante di montagna che abbiamo conosciuto, è lucido e appassionato nonostante le notizie allarmanti che abbiamo letto negli ultimi anni. Ma perché ci si accanisce sempre in questo modo nei confronti di chi è anziano, di chi ha degli handicap? Danno così fastidio queste persone che bisogna sempre prepararne la morte per sentirsi superiori?

Canzoni da intorto (spiega Guccini: “significa imbonire, circuire per convincere qualcuno, una frase ideata da mia moglie mentre eravamo a cena con i miei discografici, fu accolta come titolo definitivo di un disco che non mi trovava allora del tutto consenziente e pacificato”) è paradossalmente il disco più politico che Guccini abbia mai fatto perché, a parte qualche brano “impegnato” qua e là, il cantautore modenese è sempre stato più interessato a parlare di se, del male di vivere. Ma, spiega, “è stato registrato mesi prima che l’attuale governo nascesse. Sono canzoni che ho sempre cantato con gli amici e i familiari”. E sono le canzoni della sua cifra politica, quella anarchica: “Una volta all’amico Sergio Staino dissero: Guccini si sa che è comunista. Era una considerazione sbagliatissima perché De Gregori, ad esempio, era comunista ma io no, io sono sempre stato anarchico, anche se sembra strano parlare di anarchia nel 2022”. Non si spiegherebbe altrimenti l’aver composto una canzone meravigliosa come Primavera di Praga in un periodo storico in cui il nostro Pci ancora difendeva e giustificava le “operazioni di pace” del Cremlino (qualcuno lo fa ancora oggi e lui dice che gli americani vennero in Italia “con i carri armati ma ci portarono sicurezza e la possibilità di ricominciare daccapo”).

E’ così che a fine disco, come traccia fantasma, si trova un canto ucraino, Sluga Naroda, che si conclude con il grido di “Slavia Ucraini”, gloria all’Ucraina. Per citare ancora De Gregori, il Maestrone “sempre e per sempre, dalla stessa parte lo troverai”. Come ai tempi di Praga, oggi in quelli di Kiev.

Dicevamo di un disco politico. Che bello che ci sia ancora qualcuno fedele a se stesso e alle cose a cui ha dedicato la vita. L’iniziale Morti di Reggio Emilia, scritta ai tempi del governo Tambroni, sostenuto dal Movimento sociale (coincidenze?) è un pugno nello stomaco (“Compagno cittadino, fratello partigiano Teniamoci per mano in questi giorni tristi Di nuovo a Reggio Emilia, di nuovo là in Sicilia Son morti dei compagni per colpa dei fascisti Di nuovo come un tempo, sopra l’Italia intera Urla il vento e soffia la bufera”) seppur sdrammatizzato da un bell’arrangiamento bandistico, quasi da balera. C’è l’apologia dell’attentato dinamitardo di Nel fosco fin del secolo, brano conosciuto anche  come Inno del Molinari, cantato durante i moti della Lunigiana del gennaio 1894 (“Urlan l’odio, la fame ed il dolore da mille e mille facce ischeletrit ed urla col suo schianto redentore la dinamite” e c’è  la mesta Addio a Lugano, il canto anarchico per eccellenza (nei cui cori tra gli altri appare anche Davide Van De Sfroos).

Nel bellissimo libretto che accompagna il disco Guccini spiega di quando andava in giro da giovane per le osterie delle campagne emiliane con un registratore Philips a “irretire” gli anziani offrendo loro da bere perché gli cantassero vecchie canzoni. Autentico musicologo, ricercatore popolare, Guccini celebra con questo disco la sua e del popolo italiano storia: “Questa raccolta di canti popolare è fondamentale” scrive, senza falsa modestia, ma con giusto orgoglio. Ecco allora un vecchio canto del Polesine, Tera e aqua, che anni fa De Gregori fece suo anni fa intitolandolo Terra e acqua e di cui ora sappiamo l’origine.

Oltre ai canti anarchici ci sono quelli partigiani, come la celeberrima Ma mi e inaspettatamente anche Enzo Jannacci, con la maestosa e commovente Sei minuti all’alba. “Ovvio che la congerie politica attuale non mi lascia indifferente. A scuola, quando studiavamo l’Iliade, c’era chi nella mia classe stava con i greci, io sono sempre stato dalla parte dei troiani. Dei perdenti, appunto. Nei miei pezzi si capisce da che parte sto. Non ho mai nascosto le mie idee” dice durante la conferenza stampa. E i perdenti oggi sono da nascondere, da mortificare, perché se non sei bello, giovane, non hai successo ti meriti solo di essere scartato, fino ad arrivare a dire che le Ong “sono centri sociali galleggianti”.

Ma il disco è interessante anche per capire come sono nate le canzoni di Guccini. Brani come Le nostre domande e Quella cosa in Lombardia, sembrano infatti scritte da lui: classiche ballate dai toni intimisti, amari, pessimisti, ritratti di angoli di disperazione quotidiana. La seconda fu incisa anche da Jannacci, ma soprattutto da Laura Betti con l’orchestra di Piero Umiliani: “Sia ben chiaro che non penso alla casetta Due locali più servizi Tante rate, pochi vizi Che verrà, quando verrà Penso invece a questo nostro pomeriggio di domenica Di famiglie cadenti come foglie Di figlie senza voglie Di voglie senza sbagli”.

C’è un grande lavoro di arrangiamenti e strumentazione, musiche che passano dai ritmi balcanici alle orchestre di piazza di una volta e anche suggestioni brasiliane. Un lavoro toccante, da studiare a fondo. Il disco esce soltanto in formato cd e vinile, la casa discografica dice per dargli “maggior riconoscimento” artistico. Piuttosto è ovvio che i ragazzini di oggi non vadano su Spotify a cercare l’anziano cantante e che i suoi fan non vadano proprio su Spotify. Lui, personalmente, dice di non sapere neanche cosa sia lo streaming. C’è anche una edizione doppio vinile con tracce strumentali. In ogni caso, ben tornato “Maestrone”.