Sedici album in tutto in una carriera durata poco meno di 45 anni. Non sono molti, Francesco Guccini è sempre stato molto parco nella sua produzione, preferendo un lavoro accurato e approfondito senza seguire le chimere dei facili successi. E’ facile pescarne subito dieci di quelli che ci piacciono di più visto che la sua produzione non ha alcuna caduta, alcun passo falso, come sempre quando si parla di personaggi di tale caratura non ce ne sarebbe neanche uno da scartare. Come abbiamo già fatto in precedenti occasioni seguiamo un percorso personale, quelle canzoni e quelle storie che ci hanno parlato in modo diretto attraverso i percorsi misteriosi che legano artista e ascoltatore. E se c’è un artista che ha saputo raccontarci in ogni dettaglio, questo è stato Francesco Guccini. Con il suo apparente cinismo, con la sua rabbia, il suo disappunto, le sue illusioni pagate a caro prezzo, la sua malinconia, la sua disperazione. Ma anche un cuore grande, che ha desiderato tutta la vita che un “incontro” si facesse carne e sangue. Le sue canzoni sono sempre state domande aperte, com ben esprime il brano Canzone delle domande consuete, perché quelle consuete sono quelle più difficili da affrontare perché richiedono risposte non consuete. La domanda consueta è infatti quella che ci consente di non dare l’altro per scontato: perché quando smettiamo di chiedere, il mondo scompare. Guccini è una domanda aperta, che il significato della vita si faccia incontrabile, che l’altro si renda presenza: “Se ci sei, cosa sei? Cosa pensi e perché? Non lo so, non lo sai; siamo qui o lontani? Esser tutto, un momento, ma dentro di te, aver tutto, ma non il domani… Non andare… vai.. Non restare…stai… Non parlare… parlami di te”.



1. Via Paolo Fabbri 43, 1976

Innanzitutto il suono. Per un disco registrato e pubblicato a metà anni 70, ci sono pochi altri paragoni analoghi. Allora non era facile registrare un disco sia per ragioni tecniche, ma anche sopratutto per incapacità. Via Paolo Fabbri 43 è invece perfetto in ogni dettaglio: le chitarre acustiche, la batteria, tutto quanto suona in modo fresco e vivo, ogni intervento è al suo posto e risplende ancora oggi. Poi le canzoni. Guccini esce dalla “depressione” acuta del disco precedente e indossa perfettamente i panni del cantastorie: la ragazza vittima dell’aborto imposto dalla cultura maschilista; lo splendido ritratto del pensionato in cui ci si riconosce tutti; le sue notti insonni bolognesi; l’impossibilità di costruire un amore che resista. E su tutte naturalmente il capolavoro immortale de L’avvelenata, in cui Guccini non risparmia il suo furore a nessuno, dai “compagni” ai critici musicali ai colleghi cantautori. Il disco più equilibrato e raffinato di Francesco Guccini.



2. Radici, 1972

Peccato per l’orribile produzione e il suono pasticciato, confuso, dove gli strumenti si accavallano e mischiano tra loro e la voce non spicca. Le canzoni però sono il canone definitivo del cantautore. Dalla maestosa tristezza e malinconia che avvolgono Incontro (ma anche la dichiarazione di desiderio che ci costituisce, soffocata dal vuoto della società, “Siamo qualcosa che non resta frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno”) all’inno anarchico de La locomotiva, dalla poesia accorata de Il vecchio e il bambino al brano che intitola il disco, che esprime tutta l’ansia di ricerca di significato dell’uomo Guccini, una ricerca mai compiuta ma che nell’appartenenza familiare trova il punto di partenza e, probabilmente, l’unico significato.



3. Stagioni, 2000

Francesco Guccini sembra quasi voler salutare in punta di piedi e togliere il disturbo, e così fa il punto sulla sua esistenza, lasciandosi andare alla malinconia e alle tristezze più acute, di cui è da sempre maestro. In questo disco con un titolo non casuale (e non casualmente tra le stagioni cantate manca l’estate perché, dice lui, “L’estate è il tempo della spensieratezza, della dimenticanza. […] “Stagioni” è un disco poco spensierato”) passa in rassegna la sua vita, dal ragazzino diciottenne e il primo grande amore svanito come svanisce la vita, al mito di Che Guevara alla lettera alla figlia Teresa, E un giorno, dove non sa altro che lasciarle l’avvertenza che la vita, sì, può essere una delusione. Nonostante tutto, Ho ancora la forza, dice (composta con Ligabue). Un disco duro, amaro, ma non cinico, perché l’amore per la vita riesce a trapelare tra le righe. Solo chi la vita l’ha vissuta fino in fondo può cantarla in questo modo.

4. Stanze di vita quotidiana, 1974

Il disco “stroncato” da Riccardo Bertoncelli (“Guccini non ha più niente da dire”, scrisse) che gli valse la citazione ne L’avvelenata. Seppure musicalmente esagerato (troppi strumenti, e un sound quasi progressive come andava di moda ai tempi), è un disco fenomenale, un autentico spleen leopardiano. E’ evidente lo stato mentale che sfiora la depressione del cantautore, ma è impossibile non riconoscersi in questa durissima e amara descrizione delle nostre “vite quotidiane”. Ogni canzone contiene un motto, uno slogan da appendere al muro e se Guccini prende le distanze da ogni contestazione politica dell’epoca storica avendo già capito l’illusione amara delle ideologie, preferendo le carte al mattino al bar della stazione, con Canzone per Piero ci regala uno dei brani più commoventi e toccanti mai scritti sulla bellezza e le speranze della gioventù.

5. D’amore di morte e di altre sciocchezze, 1996

Con una inaspettata grinta rock, ma anche recuperando gli antichi sapori folk, Guccini produce un altro disco di raffinata classe e di testi come sempre di caratura superiore. La malinconia e le delusioni della vita fanno sempre capolino con l’eccezione della bellissima Vorrei, dedicata alla sua nuova compagna, Raffaella. Emerge con tutta la sua forza l’insopprimibile desiderio di un “altro” senza la cui presenza non esistiamo neanche noi: “E lo vorrei perché non sono quando non ci sei”. Deliziosa la popolaresca Canzone delle colombe e del fiore; potente e amara Cirano, invettiva contro la banalità e l’arrivismo che ci ammorbano, in un mondo dove solo l’amore per un altro (di nuovo) rendono la vita degna di essere vissuta (“Non voglio rassegnarmi ad essere cattivo, tu sola puoi salvarmi, tu sola e te lo scrivo: dev’esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto dove non soffriremo e tutto sarà giusto”). Quasi un estratto dal celeberrimo Opera buffa, sono i quasi dieci minuti dal vivo de I fichi, spassosa come solo Guccini, nonostante tutto, sa essere.

6. Amerigo,1978

La voce possente, declamatoria del brano che dà il titolo al disco, si espande in modo epico narrando ancora una volta una storia di famiglia, quella dello zio emigrato in America e tornato povero e malato peggio di prima. Uno sconfitto, in cui il cantautore si identifica, passando in rassegna il mito giovanile dell’America. Il disco non si discosta dal precedente, per ambientazione musicale e temi, su tutte la amata Eskimo su un impianto brillantemente country, ancora una rivisitazione amara delle esperienze giovanili (“A vent’anni si è stupidi davvero quante balle si ha in testa a quell’età) ma con uno sguardo compassionevole e affettuoso. 100, Pennsylvania ave è ancora America, quella toccata con mano inseguendo un amore impossibile, così come lo erano i sogni di quella della generazione. Libera nos Domine è l’urlo furente del suo spirito anarchico che rifugge e maledice ogni potere e ogni banalità. Ultimo disco con a cuore la sua America, la sua giovinezza, i sui ideali traditi, Guccini si muove verso il nuovo decennio.

7. Folk beat n. 1, 1967

L’esordio con il solo nome di “Francesco”, è l’anello di congiunzione tra il cantautorato americano di protesta, quello di Bob Dylan da cui attinge a piene mani, (“Tardi la notte, dormendo ho sognato che Bob Dylan ero diventato”) e quello italiano. Un disco che sarà manifesto per quasi tutti i colleghi degli anni 70. Benché molto ingenuo musicalmente, contiene brani che hanno segnato la sua carriera, da Auschwitz alla tutt’oggi splendida In morte di S.F., usata sempre come sigla iniziale dei suoi concerti. Il sociale e l’anti sociale, dichiarazione programmatica della sua anima anarchica, risale addirittura al 1960, mentre Venerdì santo anticipa l’acuto senso di malinconia e di tristezza che diventerà la sua cifra artistica. La versione definitiva di gran parte di questi brani si trova nel disco dal vivo inciso con i Nomadi nel 1979.

8. Due anni dopo, 1970

In realtà uscito tre anni dopo l’esordio e con ancora il solo “Francesco” in copertina, è ancora tutto acustico, con l’accompagnamento della brava amica americana Deborah Kooperman alla chitarra, ma anche tastiere, qualche tocco di arpa e percussioni e leggero accompagnamento di archi. Il disco pone le basi di tutta la sua poetica: l’amore impossibile che sprofonda nella noia (Lui e lei, Vedi cara), il nichilismo e l’insoddisfazione esistenziale (La verità, Per quando è tardi, Giorno d’estate, la title track), la presa in giro acida degli stilemi della borghesia (Il compleanno). Ma soprattutto contiene uno dei suoi massimi capolavori, Primavera di Praga, disperato urlo di solidarietà con i giovani dell’Europa dell’est, schiacciati dai carri amati sovietici e un chiaro distacco dal comunismo militante occidentale, ancora prono a Mosca.

9. Opera buffa, 1973

“L’altro” Francesco Guccini. Irresistibile poeta delle osterie, umorista devastante, bastonatore di ogni morale perbenista e cantore degli ultimi. Un Guccini che chi non frequentava l’Osteria delle dame a Bologna non ha mai potuto conoscere. Gran parte degli accompagnamenti strumentali vennero aggiunti poi in studio, ma quello che conta sono lui e le sue storie: l’epocale Genesi, entrata nei manuali dell’umorismo italico (Dio: Mentre pensava a se stesso pensante”); Il bello, parodia del bulletto di provincia; Fantoni Cesira, degna del miglior Enzo Jannacci e La fiera di San Lazzaro, tributo alla sua città di adozione, Bologna.

10. L’Ultima Thule, 2012

E anche il Maestro disse addio. Lo fa annunciandolo a chiare lettere: basta canzoni e basta concerti. Lo fa soprattutto con grande dignità, lasciandoci integro e onesto con sé e gli altri, come sempre ha fatto. Lo fa in modo delicato, commovente. “A letto si va per dormire, mica per leggere” dice una voce in apertura della quarta canzone di notte gucciniana, il momento del tempo preferito e più amato del cantautore. Una “notte pavanese” questa volta, non più quella urbana, asociale, angosciante del passato. Ma sempre una notte che sussurra domande e inquietudine a “questo eterno vagabondo”. Lo fa salutandoci ora in modo dolce (L’ultima volta dolcissimo rimembrare una vita ormai ai suoi ultimi istanti, “Ed il ritmo del tuo respirare che pian piano si ferma e scompare”), lo fa con la poesia tenerissima a chi è ritornato dalla guerra in Quel giorno di aprile. E lo fa con il testamento di un pagliaccio, sarà davvero lui? (“Di cosa muore? Muore intossicato Da sogni vani di democrazia Rifiuta i compromessi alla bugia Muore contento? No, da disperato Ma cosa importa, è giunto fino in fondo Alla sua saga triste e divertente A una vita ridicola e insipiente Lui muore, infine, e noi restiamo al mondo”). Quanta bellezza. Peccato per quella promessa non mantenuta, ma va bene così: “Ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare e a culo tutto il resto”.