In un primo momento, di fronte alla morte di una persona, si ha il desiderio innanzitutto di un cenno di rispetto e di raccoglimento. Poi pare giusto valutare l’operato in vita di questa persona, soprattutto trattandosi di un uomo pubblico, di un personaggio che ha, in parte (non c’era solo lui tra i tanti in diverse parti del mondo), cambiato e sconvolto la storia di questo Paese.



Stiamo parlando di Francesco Saverio Borrelli, l’ex capo del pool di “Mani pulite” ai tempi in cui era procuratore della Repubblica ed ex procuratore generale di Milano, deceduto venerdì all’età di 89 anni.

Probabilmente la popolarità di “Mani pulite” è sempre alta, da “Alto gradimento”, in questo Paese. Eppure si nota, rispetto ai risultati che si sono ottenuti con l’abbattimento della prima repubblica e l’avvento di altre ipotetiche repubbliche variamente numerate, qualche ripensamento e anche qualche critica.



Con il solito garbo, Ferruccio de Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera, ha detto in interviste e in alcune dichiarazioni: “Quando nel 1992 iniziò Tangentopoli chiudemmo un occhio sulle esagerazioni ed eccessi nella certezza che la mannaia avrebbe colpito indistintamente a destra quanto a sinistra… poi a un certo punto ci siamo accorti che alcuni erano stati risparmiati o avevano ricevuto un trattamento di riguardo creandosi una situazione di disparità francamente imbarazzante: chi in galera e chi al potere”. Insomma, c’era stata qualche svista, anche da parte dei giornalisti più arguti e preparati.



Ma più impressionante resta una sorta di pentimento (come altro chiamarlo?) che Francesco Saverio Borrelli consegnò a Marco Damilano, attuale direttore dell’Espresso, vent’anni dopo l’esplosione della grande inchiesta. L’ultima riga di pagina 245 e le prime righe di pagina 246 del libro Eutanasia di un potere, edito da Laterza nel dicembre del 2013, raccontano di un Borrelli che dice a Damilano tra virgolette: “Se fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico dove è costume chiedere scusa per i propri sbagli, chiederei scusa per il disastro seguito a Mani pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”.

Nel libro citato, il pensiero di Borrelli viene riproposto un altro paio di volte. E probabilmente offre la misura della delusione provata anche dal capo del pool di fronte alla parabola politica che parte con Berlusconi, passa dai comprimari del “nuovismo” di sinistra per poi approdare a “Giggino”, “Dibba” e il “Capitano”.

Non entriamo nel complottismo, ma cerchiamo solo di attenerci ad alcune considerazioni, sapendo che dovremo preparaci a giorni di “inusitata santificazione” di Francesco Saverio Borrelli e, speriamo, forse anche a precisazioni più meditate su un uomo che ha fatto in discreto silenzio per oltre 40 anni il suo mestiere e poi è esploso in quel “Resistere, resistere, resistere”, che un telegiornale, sedicente “perfettamente non schierato”, come quello de La7, ha subito innalzato a “simbolo di difesa dell’autonomia e dell’indipendenza” della magistratura.

Ora, per spiegare a Urbano Cairo e ai suoi “corsari dell’informazione” che un conto è l’indipendenza del magistrato giudice, quello che sta sopra le parti, e un conto è il ruolo del pm, bisognerebbe risalire sino alle “verrine” di Marco Tullio Cicerone, accusatore di  Gaio Licinio Verre, corrotto governatore della Sicilia romana, a cui era comunque assicurato un difensore: anno 70 avanti Cristo.

Spiegare che il teorico della divisioni dei poteri in una democrazia, Charles Louis de Secondat, barone di La Brede e di Montesquieu, noto appunto come Montesquieu, sosteneva che sarebbe un “abuso se il giudice facesse lo stesso mestiere del pubblico accusatore”, sarebbe ormai in Italia una sorta di scalata dell’Everest a mani e piedi nudi.

Quindi, anche citare i grandi giuristi come Carnelutti, come lo stesso Calamandrei, fino a Falcone, per arrivare a sostenere la separazione delle carriere e spiegare perché alla Costituente si rinviò, di fatto, questo problema, è una questione troppo “difficile”, inutile, anche per un nuovo ministro della Giustizia come “l’inutile pensoso” Alfonso Bonafede, che si è schierato con la von der Leyen europeista, ma non deve proprio ascoltare le continue bacchettate della Corte di giustizia europea sull’Italia perché si rispetti il principio del “giudice terzo”. 

Anche i commenti ironici di Enzo Tortora, povera anima, sarebbero del tutto inutili: non fate vedere i film di Perry Mason in tv, altrimenti gli italiani pensano che i processi si svolgano in questo modo, con un dibattito serrato tra accusa e difesa e il giudice che interviene dopo, con il concorso della giuria.

In Borrelli e nel suo vitalissimo e popolarissimo pool c’era invece, purtroppo, il vecchio spirito inquisitorio che l’Italia non vuole abbandonare. In più c’era, in quei tempi, un’intesa tra magistratura inquirente e mass media che portò molti giornalisti quasi al “disgusto”, alle dimissioni di fronte a certe carte che passavano da una mano all’altra e a certe rivelazioni clamorose ed esclusive.

Il 14 luglio 1994 sugli schermi delle nostre reti televisive apparvero i pm del pool per affossare il cosiddetto decreto Conso. Un simile spettacolo di invadenza giudiziaria nella vita politica non sarebbe immaginabile neppure oggi, nemmeno nella piuttosto sgangherata vecchia Gran Bretagna in preda alla Brexit. Qui naturalmente vinsero i “pm” che avrebbero “pulito” l’Italia.

Ma quello che più stupisce è che tutti sapevano che il finanziamento pubblico ai partiti era stato illecito fin dal 1946. Nel 1989 si era approvata sottobanco un’amnistia che giustificava tutto quello che era avvenuto nell’Italia repubblicana del dopoguerra, tranne gli anni che vanno dal 1989 al 1992. In attesa che si cambiasse sistema.

Dati alla mano, si è dimostrato che tutti i bilanci firmati dai presidenti delle Camere, sin dal 1946, erano falsi e che nessun politico e nessun magistrato aveva mai sollevato obiezioni, tranne poi scatenare la “grande lotta alla corruzione”. Inoltre il nuovismo politico si è pure rifiutato di creare su Tangentopoli una doverosa, almeno da quello che appariva, commissione d’inchiesta.

Dato che siamo in tema di “russopoli”, c’è una coda che si dovrebbe considerare, o comunque vale la penna di citare. Scrive Stephane Courtois, autore de Il libro nero del comunismo: “L’assordante silenzio che ha accompagnato in Italia le rivelazioni sulla dimensione criminale di quasi un secolo di comunismo, cioè sugli 85 milioni di morti ammazzati, non è nulla rispetto al silenzio, come dire?, rimbombante che è stato steso su quello che riguardava la ‘question financière’, cioè l’oro di Mosca”.

Alla vigilia della guerra di Corea, nel 1950, Stalin dava incarico all’armeno Vagan C. Grigorian di costituire un fondo per finanziare sistematicamente i partiti comunisti di opposizione in Occidente. Il nome che fu stabilito era questo: “Fondo sindacale di assistenza alle organizzazioni operaie di sinistra”.

Si dirà: cose vecchie! Probabile che ci siano state delle significative variazioni, ma nel cosiddetto “secolo breve” che arriva sino alla caduta del Muro di Berlino, il calcolo che Courtois e i suoi collaboratori fanno è che il Partito comunista italiano, sotto varie forme, prese ben il 25 per cento dei finanziamenti di Mosca anche dopo Stalin, dopo Kruscev, dopo Breznev e dopo le “ultime mummie” del Cremlino, per un totale che approssimativamente si aggirerebbe sui mille miliardi di vecchie lire, con un valore oggi imprecisato.

Non si è mai comunque capito ad esempio perché ancora alla fine degli anni Settanta, e forse anche dopo, il Pci avesse a disposizione sulla Bank of Cyprus di Londra il conto numero 100203939/560. Erano archiviate tutte queste possibili inchieste? Forse Borrelli e i suoi “ragazzi” se ne erano dimenticati.