La ragione ultima per cui Marine Le Pen ha ritirato la sua “non sfiducia” indispensabile al governo di Michel Barnier è la richiesta di condanna avanzata tre settimane fa dalla Procura (Parquet) nazionale francese per lei e per altri 26 dirigenti del Rassemblement National con l’accusa di malversazione di fondi pubblici destinati ad assistenti parlamentari.
In Francia i magistrati inquirenti sono sotto la responsabilità del ministro della Giustizia: dal 21 settembre a ieri è stato Didier Migaud, formalmente un tecnico indipendente, con un passato di deputato socialista. Ma l’inchiesta che ha infine materializzato per la leader della destra francese la minaccia di una condanna a cinque anni di carcere e all’ineleggibilità è stata condotta per larga parte negli anni in cui il presidente Emmanuel Macron aveva pieni poteri all’Eliseo. È stato quasi inevitabile che Le Pen abbia subito intravisto un’ennesima ed estrema manovra di Macron, dopo i tre rovesci elettorali estivi, quando il presidente – battuto al voto europeo proprio da RN – aveva chiamato il rinnovo anticipato dell’Assemblea nazionale e tentato invano di formare un “fronte repubblicano” al fine espresso di neutralizzare Le Pen, soprattutto nella prospettiva delle presidenziali 2027.
L’esito è stato invece un parlamento “impiccato”, con il fronte macroniano fortemente ridimensionato, la sinistra del Nouveau Front Populaire in maggioranza relativa (e comunque relegata all’opposizione dall’Eliseo), il centrodestra gollista premiato con l’incarico a Barnier ancorché nettamente minoritario, e Rassemblement National contenuto dopo l’avanzata dirompente all’eurovoto, ma confermato nel ruolo centrale nella politica francese (dopo la faticata vittoria di Macron su Le Pen nel ballottaggio presidenziale 2022).
Il passaggio-detonatore della clamorosa crisi francese – un intervento giudiziario a forte sospetto di orologeria politica – non fa ora che rendere ancora più “italienne” l’involuzione politico-istituzionale a Parigi. E la rapidità con cui Macron intenderebbe installare fin da oggi un nuovo governo “suo” sembra confermare, anzi, la gravità di un caso avvicinabile al perdono concesso al figlio Hunter dal presidente (sconfitto) Joe Biden. Con la spregiudicatezza e il conflitto d’interesse come criteri principali nell’uso delle regole di una consolidata democrazia costituzionale.
In Francia nuove elezioni politiche non sono possibili per legge prima del 30 giugno prossimo. Ma – soprattutto – Macron ha confermato che non intende dimettersi prima della fine del suo mandato, nonostante anche ieri all’Assemblea nazionale si siano levati inviti netti a farlo, sia dalla destra che dalla sinistra della “maggioranza” che ha dimissionato il premier scelto dal presidente dopo un’estate lunghissima e paludosa. Mesi in cui Macron si è attirato critiche pesantissime per aver tenuto il Paese senza governo al fine unico ed evidente di mantenere il suo potere personale.
Il pretesto principale per continui rinvii – sul filo della costituzionalità – è stata la “pausa olimpica” per i Giochi di Parigi di agosto. Dopodomani molti capi di Stato saranno presenti a Parigi a un evento di pari rilievo mediatico globale: la riapertura solenne della cattedrale di Notre Dame, dopo l’incendio devastante di sei anni fa. Ci sarà anche Donald Trump – presidente eletto ma non ancora insediato – al suo primo ritorno in Europa da leader di quella che resta la più grande potenza del pianeta. È comprensibile che Macron intravveda una finestra più unica che rara in una fase geopolitica di grande turbolenza: presentarsi a Trump nei panni – ritrovati prevedibilmente attraverso un governo tecnico – di “padrone” della Francia.
La situazione, fra l’altro, gli consentirebbe di sedersi di nuovo a pieno titolo al Consiglio Ue di Bruxelles, dal quale invece è già virtualmente uscito il cancelliere tedesco Olaf Scholz (e il suo sostituto – dopo il voto anticipato in Germania – difficilmente entrerà in carica prima di aprile). Certo, la credibilità odierna della Francia in Europa è minima: all’inizio di dicembre non ha ancora approvato la sua legge di bilancio. Anzi: il governo è caduto proprio sulla manovra che recepiva tutti i “desiderata” della Ue e dei mercati, sempre più preoccupati per la stabilità delle finanze pubbliche francesi. Neppure l’Italia del 2011 ha dato uno spettacolo simile; alla fine neppure la Grecia nel 2015, costretta a un’austerity spietata anche dalla Francia del presidente socialista François Hollande.
A Parigi volerà anche il presidente della Repubblica italiano Sergio Mattarella: in omaggio anche al “Trattato del Quirinale” siglato nel 2021, un singolare atto di amicizia semi-personale fra i due presidenti. Formalmente, la firma italiana fu apposta dal premier tecnico Mario Draghi, non avendo il Capo dello Stato italiano poteri esecutivi. Due anni prima, tuttavia, era stato difficile relegare all’ambito della pura garanzia istituzionale il ruolo di Mattarella nel ribaltone di governo italiano: fra il Conte 1 (M5s-Lega, format in parte sovrapponibile alla “coalizione delle estreme” RN-NFP ieri a Parigi) al Conte 2. Quest’ultimo richiamò nella maggioranza il Pd, in una coalizione di chiaro centrosinistra. La crisi del Conte 2 aprì poi la strada al governo Draghi: di larghissima coalizione, lasciando all’opposizione solo la destra di Fratelli d’Italia. Il partito netto vincitore delle successive elezioni politiche del 2022.
Bene, vi sono indizi che il tentativo risolutivo di Macron possa impastare tecnocrazia (la cifra stessa del macronismo, oggi peraltro molto appannata) e “ribaltonismo”, con l’inclusione in una maggioranza “di salute pubblica” di forze della sinistra non estremista. All’opposizione resterebbero La France Insoumise e RN. I numeri parlamentari conditi di una robusta narrazione emergenziale (magari sostenuta da un po’ spread “italiano” sul debito francese) potrebbero funzionare. Resterebbe ovviamente sul tavolo una riforma previdenziale e altre misure di austerity che finora si sono dimostrate impossibili da far digerire al parlamento e soprattutto alle piazze francesi (popolate via via di gilet gialli, sindacati rossi e agricoltori anti-verdi). Neppure Barnier (un ex commissario Ue di lungo corso e grande prestigio) è riuscito infine ad applicare il contestatissimo “49.3”: quello che nella Francia semipresidenzialista consente al governo di agire per decreto.
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