Emmanuel Macron è riuscito a evitare il voto di sfiducia delle opposizioni che avrebbe fatto decadere la riforma delle pensioni approvata grazie a una norma della Costituzione (articolo 45 comma 3) che consente al Governo di bypassare il voto della Assemblea nazionale se ritiene indispensabile un provvedimento per l’interesse nazionale.



In questo caso, l’Assemblea può ricorrere a una mozione di censura che se viene approvata determina la caduta del Governo mentre la legge non esiste più (tamquam non esset). Macron, che non ha la maggioranza nell’Assemblea nazionale, è ricorso più volte a questa procedura. E le opposizioni glielo hanno rimproverato soprattutto in questa occasione, per aver proceduto “di autorità” senza cercare il confronto e il consenso dei sindacati (che sono stati capaci solo di una posizione di arroccato rifiuto e hanno messo a soqquadro per settimane la Francia).



Diventa impossibile negoziare con chi non vuole cambiare nulla, considera diritti acquisiti anche i privilegi ed esercita il suo diritto di dissentire tentando di paralizzare il Paese. È facile avere potere contrattuale quando si bloccano ad oltranza le raffinerie, i trasporti e i più importanti servizi sociali a favore dei cittadini. Come ha scritto Marco Bentivogli, la forza dei sindacati francesi è inversamente proporzionale alla rabbiosità delle sue proteste. Solo un sindacato debole – e un po’ straccione – fa valere le sue istanze prendendo d’ostaggio i cittadini e creando seri problemi di ordine pubblico. Soprattutto quando le motivazioni usate per respingere la blanda riforma del Governo Borne erano le seguenti: “voler mantenere in equilibrio il sistema pensionistico è una sottomissione alla politica dell’austerità – come evidenziano i sindacati francesi – che ha governato le scelte economiche e politiche dell’Europa per tanti, troppi anni”.



Il casus belli riguarda l’elevazione dell’età di pensionamento da 62 a 64 anni entro il 2030, accompagnata anche da un allungamento – fino a 43 anni nel 2027 – dell’anzianità contributiva utile a percepire il massimo di pensione. Ma la questione vera di cui si parla poco consiste nell’intenzione del Governo di arrivare, almeno per i nuovi assunti, a un regime uniforme che si lascerebbe alle spalle i 42 regimi e casse previdenziali ora vigenti con trattamenti oggettivamente privilegiati. Inoltre, per il calcolo della pensione è previsto un regime unico basato su un sistema a punti, un nuovo metodo che pare orecchiare quello del nostro sistema contributivo previsto nella riforma Dini del 1995 che il Governo e il Parlamento scrissero e approvarono sotto la dettatura di Cgil, Cisl e Uil. Il trattamento unico, in Francia, cancellerebbe le agevolazioni di molte categorie, i cui regimi vigenti permettono di calcolare la pensione sulla base degli anni di contribuzione più favorevoli.

I sindacati italiani “menano il can per l’aia” fischiettando. In prevalenza dedicano la loro attenzione alla riforma dei contratti a termine in Spagna. Alcuni, soprattutto la Cgil, hanno dato spazio su i loro organi di comunicazione (Collettiva) a dichiarazioni e interviste rilasciate – senza vergogna – da colleghi francesi. Possono permetterselo, perché la questione dell’età pensionabile suscita un diffuso malpancismo un po’ ovunque, che determina resistenze ad adeguare il sistema alle nuove aspettative di vita e ai trend demografici e occupazionali.

Diciamo pure che le opinioni pubbliche europee sono state convinte, spesso, da un’informazione ideologizzata secondo la quale è giusto e dovrebbe essere consentito di andare in quiescenza il più presto possibile e percependo un trattamento ragguagliato non ai contributi versati, ma alle esigenze della vita. I sindacati di casa nostra devono essere cauti, perché da noi, la battaglia per l’uniformità delle regole, il superamento dei privilegi, e non solo per i nuovi assunti, l’hanno combattuta le grandi organizzazioni confederali, misurandosi con resistenze anche all’interno dei loro corpi associativi, in particolare nel pubblico impiego e nei servizi pubblici.

A metà degli anni ’90 la struttura del sistema pensionistico obbligatorio italiano consisteva in ben 47 regimi pensionistici (amministrati da decine di enti previdenziali).  Dopo una seria di processi di accorpamento, dal 2012 la previdenza obbligatoria in Italia è costituita da due grandi poli pubblici: l’Inps che ha incorporato tutti gli enti erogatori di prestazioni pensionistiche, assistenziali, occupazionali, di sostegno al reddito e alla famiglia (e da ultimo ha incorporato anche l’Inpgi); l’Inail che ha incorporato tutti gli enti erogatori di prestazioni antinfortunistiche. Ma più che la dimensione dei processi organizzativi, il cui compimento è stato parecchio travagliato per tanti comprensibili motivi, l’aspetto più importante derivante da decenni di riforme/controriforme è stata la graduale ma crescente unificazione delle regole, nei criteri generali (del lavoro dipendente e autonomo) e nelle specifiche normative (del lavoro dipendente).

Sono stati proprio i sindacati a chiedere e non solo per i lavoratori nuovi assunti, un’uniformità tra lavoro pubblico e privato, e la soppressione dei fondi speciali.  Che cosa dobbiamo pensare? Le abiure, i pentimenti, le autoflagellazioni della sinistra politica e sindacale riguarderanno anche le scelte compiute in proprio in materia di pensioni? Certamente la piattaforma che da anni Cgil, Cisl e Uil presentano ai Governi che si sono succeduti nella passata legislatura non è un esempio di rigore, tanto che nessuno l’ha presa finora sul serio. Neppure, per ora, il Governo Meloni, nonostante le assonanze con le richieste della Lega. Ma il “mal francese” vorremmo risparmiarcelo.

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