Sarà necessario vedere il contenuto di questo accordo del Quirinale, cioè il Trattato del Quirinale varato tra Italia e Francia. Per il momento siamo ai titoli e a quello che si è visto in passato, che non è sempre stato idilliaco, tanto per essere chiari. Secondo chi ha avuto la fortuna di sapere qualche cosa di più del Trattato, si sa che siamo di fronte a un complesso negoziato che va avanti da un anno e che ha l’obiettivo di rafforzare il rapporto tra Roma e Parigi attraverso un dialogo periodico tra le amministrazioni. In più un’agenda comune su grandi temi con priorità condivise. È necessario conoscerlo e spiegarlo bene, perché, secondo alcuni, dovrebbe cambiare il corso della storia in Italia e in particolare in Europa.
Ci sarebbero persino scambi di ministri durante le sedute governative. Cioè, se si è ben compreso, in qualche occasione un ministro italiano potrebbe partecipare alla riunione del governo francese e viceversa un francese ai lavori di quello italiano.
Si parla ancora di unità operativa per sostenere le forze dell’ordine in funzione di obiettivi comuni. Si parla soprattutto di innovazione, di migrazione. Insomma, i titoli sono tanti, ma sono ancora tutti da verificare.
Partiamo da una considerazione di fondo. C’è stata un’Unione Europea a conduzione franco-tedesca e oggi starebbe cambiando tutto, con l’abbandono di Angela Merkel, e addirittura si potrebbe andare verso un’Unione Europea a trazione franco-italiana? Oppure, più realisticamente, si allarga a tre protagonisti il futuro dell’Ue?
Non è semplice dare una risposta a queste domande per quello che è accaduto in passato e per quello che sinora non si conosce.
Al momento, c’è ad esempio da chiarire la questione della Oto Melara, ex Finmeccanica oggi Leonardo, che dovrebbe andare ai francesi, secondo le voci più accreditate, con una conseguente perdita di lavoratori dell’azienda italiana, che da tempo lavora ad un livello di eccellenza mondiale nel campo della difesa.
Poi è in pieno corso l’affare Tim, dove i francesi di Vivendi, del finanziere Vincent Bolloré, sono in maggioranza relativa, attorno al 23% azionario, e si oppongono a un’Opa che viene dal fondo americano Kkr. Ci sono particolari abbastanza oscuri nella vicenda. Bolloré si oppone, il governo italiano, che ha la sua quota, nutre dei dubbi. Ma, particolare nel particolare, Bolloré è uno degli avversari quasi storici di Emmanuel Macron.
Ci sarebbero anche da chiarire quali interessi avranno la Total francese e l’Eni, soprattutto in Libia e in altre zone del Nord Africa.
Infine, non si può affatto dire che, nel campo esplosivo dell’immigrazione, la Francia, sinora, abbia dato una mano all’Italia. Non c’è bisogno di fare calcoli, basta parlare con quelli che hanno visto all’opera i “flic” francesi nei confronti dei migranti che arrivavano dall’Italia e cercavano, su treni o a piedi, lungo sentieri, di entrare in Francia. Venivano sistematicamente tutti respinti.
Infine c’è un ricordo indelebile: la fine di Gheddafi che cominciò con la guerra cominciata il 19 marzo 2011 e che fu inaugurata proprio dalla Francia con un attacco aereo diretto contro le forze terrestri di Gheddafi attorno a Bengasi e seguito subito dopo dal lancio di missili Tomahawk da navi statunitensi e britanniche contro tutta la Libia.
L’intervento internazionale, per le alleanze che risalgono al secondo dopoguerra, coinvolse anche l’Italia, malgrado forti opposizioni. I rapporti che esistevano tra Italia e Libia, con la disintegrazione della Libia, l’uccisione di Gheddafi, alla fine non giovò affatto all’Italia, al problema dell’immigrazione clandestina naturalmente. E infine non giovò neppure all’Eni.
Ora ci sono posizioni discordanti su questo Trattato del Quirinale, ma un poco di diffidenza di fondo è inevitabile che rimanga per tutto quello che è avvenuto in questi ultimi anni.
Speriamo che queste diffidenze siano sbagliate e invece il Trattato faccia decollare l’Italia e l’Europa. Ma appare giusto porsi delle domande e ricordare quello che è accaduto.
Le necessità dell’Italia sono innanzitutto un programma di ripresa industriale, di crescita soprattutto a medio e lungo termine, che non è stato risolto dal famoso programma di privatizzazioni varato nel 1992 e che vide la fine dell’economia mista italiana. l’Italia reagì con la grande vitalità della piccola e media industria, che diede vita a quello che fu chiamato in seguito “quarto capitalismo”.
La diffidenza nasce quando ci si muove in ambito europeo sui programmi economici e industriali.
Facciamo l’esempio del programma di privatizzazioni, che fu un flop incredibile rispetto all’obiettivo che si poneva, cioè il risanamento del debito pubblico, mentre favorì soprattutto le grandi banche d’affari anglo-americane per le commissioni che riuscirono a realizzare curando il processo di privatizzazione. E in seguito, con la crisi del 2008, a privatizzazioni avvenute, vennero favorite le banche tedesche e francesi, non quelle italiane.
Il ministro dell’industria del governo di Giuliano Amato, Giuseppe Guarino, si opponeva (lui ma non solo lui) a una vendita avventata che diventava una svendita. Scrisse e disse in più di un’occasione: “Occorre prima accorpare razionalmente quei beni industriali creando delle holding appetibili a livello internazionale e solo dopo metterli sul mercato”. Solo per questa gradualità, Guarino fu quasi selvaggiamente attaccato da media come Corriere della Sera e Repubblica. Eugenio Scalfari lo definì “Gattopardo di Stato”, il Corriere “Guarino, avvocato dei boiardi”.
Guarino è morto da un anno, ma ha lasciato alcune carte segrete e oggi potrebbe prendersi delle rivincite, perché le privatizzazioni portarono progressivamente a una de-industrializzazione italiana.
La Corte dei Conti, in un documento del 2010, spiegò seccamente: “Il processo di privatizzazione evidenzia una serie importante di criticità, che vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors e organismi di consulenza, al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito”.
In seguito l’Italia, sulla via della perdita delle grandi industrie pubbliche e della fuga dal Paese dei “grandi privati”, nonostante una vitalità imprenditoriale della media e piccola industria, non è più riuscita a crescere sensibilmente e ha poi incontrato la crisi del 2008.
È solo per questa ragione che si vorrebbe conoscere bene il Trattato del Quirinale e non cadere in una mossa in ambito europeo sbagliata. Il problema di fondo della diffidenza è quello di ripercorre il flop sulle privatizzazioni e precisare i termini degli obiettivi comuni in materia anche imprenditoriale ed economica tra Italia e Francia.
Poiché in Italia c’è ormai ben poco da privatizzare, la speranza è che siano ben chiari gli obiettivi che salvaguardano soprattutto la tutela del lavoro italiano, magari anche con una riforma della fiscalità in Europa e non più il “dumping della tassa sfrenata” che spinge alle delocalizzazioni.
Un fondo di diffidenza con la Francia è evidente per quello che è avvenuto nel recente passato. La speranza è che questo non possa più avvenire. Sarebbe però necessario conoscere nel dettaglio i punti del cosiddetto grande accordo.
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