In Francia la recente attitudine delle giovani ragazze di origine islamica e di quelle che si ritengono tali di rendere visibile la loro appartenenza attraverso l’abbigliamento, ha registrato un’estensione tale da suscitare la reazione di una parte considerevole dell’opinione pubblica. In questo senso la decisione del nuovo ministro dell’Istruzione Gabriel Attal, che ha promulgato il divieto ad indossare capi di abbigliamento che testimonino l’appartenenza religiosa, ne è una logica conseguenza.
Certamente indossare l’abaya, un lungo vestito che copre tutto il corpo, è vissuta dalle ragazze come una scelta di appartenenza, un desiderio di essere viste e identificate, fin dall’inizio, per una dimensione che è ritenuta strutturare per intero la loro esistenza. Il fatto che ciò concerna la religione islamica e non quella cristiana nelle sue diverse varianti, non è casuale. L’islam, come è noto, oltre ad essere la religione di una verità rivelata, segna anche la formidabile appartenenza ad una fratellanza che è percepita e vissuta come decisiva della propria persona. Il fatto di renderla visibile attraverso gli abiti è parte integrante di questo legame.
Sarebbe tuttavia semplificante ridurre il ricorso all’abbigliamento ad un semplice desiderio di appartenenza. Se così fosse ci sarebbe infatti da chiedersi perché una simile esigenza non si sia affatto manifestata nel passato. Anche in quello più recente, quando la rivoluzione khomeinista, a partire dal 1979, ha profondamente scosso la storia contemporanea, cambiando totalmente il corso degli eventi, anche dentro la stessa Francia. Il fatto che la rivendicazione identitaria si manifesti ad oltre quarant’anni di distanza e presso delle generazioni del tutto estranee rispetto a quel periodo, implica la necessità di guardare oltre la cornice fondamentalista.
In realtà, dietro l’uso dell’abaya c’è una dinamica ben più recente, che ha meno a che fare con il fondamentalismo islamico. Al posto di questo c’è piuttosto la reazione a modelli culturali secolarizzati che queste stesse ragazze avvertono, a torto o a ragione, come dominanti. Quest’ultimi sono percepiti come perfettamente rivelatori di un’altra identità, di fatto esplicitamente sessuata, che viene vissuta come una cornice sempre più esigente e sempre meno sopportabile.
Di fatto indossare l’abaya non è solo il segno di una rivolta identitaria in nome di un’appartenenza religiosa, ma anche di una radicale separazione da modelli estetici percepiti come non più tollerabili.
Ma una tale percezione porta ancora più lontano. Dietro una tale percezione della scuola c’è in gioco una trasformazione rilevante che quest’ultima ha registrato, in Francia come altrove. Il problema è in realtà quello di un’istituzione che non presenta più il modello che le è proprio e per il quale è stata fondata: quello di una casa culturale comune, nella quale si apprendono principi universali, in fisica come in economia, in letteratura come in filosofia. Da quest’ambizioso ma indispensabile progetto la scuola è lentamente scivolata verso l’insegnamento di saperi direttamente pratico-operativi da un lato e di nozioni de-vitalizzate, prive delle loro radici di senso dall’altro; lasciando a ciascuno il diritto di continuare a vivere nel proprio universo personale, più o meno immaginato, più o meno precisato.
In questo senso l’ambiente scolastico ha finito, progressivamente ma inevitabilmente, per essere solcato da tutte le sotto-culture possibili, così come da tutte le identità che, di volta in volta, si sono presentate nell’ambiente. Da quelle più strutturate, come può essere l’appartenenza religiosa nel caso islamico, a quelle meno visibili ma non meno invasive, come lo sono spesso le sottoculture di gruppo. Magari quelle delle diverse tribù metropolitane, con i loro segni di distinzione e le mille identità sottese, legate a mode culturali che funzionano, almeno nel breve periodo, come altrettante identità a disposizione.
La scuola è sempre meno il luogo di quest’altrove universalista, dove si recuperano i principi primi e le ragioni di senso, per essere sempre più logorata e divorata dai diversi ambienti culturali che nel frattempo si sono affermati nel più vasto contesto sociale.
In questo senso la rivendicazione di indossare l’abaya è il segno manifesto di una precarizzazione culturale dell’istituzione scolastica. Essa corrisponde alla vivida percezione di frequentare una scuola che non diffonde più una cultura condivisa ma una cultura di parte, o anche, più semplicemente, una serie di nozioni pratiche che lasciano campo aperto a tutte le interpretazioni possibili, anche le più improbabili. Dinanzi a questo “campo aperto”, dove tutto è possibile e tutte le sotto-culture prosperano, rifugiarsi nel proprio universo culturale è perfettamente conseguente.
Non è un caso che indossare l’abaya si affermi nello stesso periodo e sotto lo stesso cielo nel quale si afferma la cancel culture, cioè l’elisione di ogni frammento culturale che, contenendo inevitabilmente principi e valori di particolari contesti storici, non può che rivelarsi di parte e quindi va cancellato. Un’attitudine quest’ultima che, come è noto, comporta l’impossibilità di reperire i principi universali che reggono in realtà la ragione.
Le esigenze identitarie si manifestano in modo tanto più esplicito – e talvolta violento – quanto più la scuola ha smarrito la propria vocazione culturale, difende poco o per nulla i principi universali, pratica sempre meno una cultura oggettiva che fa da fondamento ad una società unitaria.
È impossibile bloccare le esigenze identitarie se non si restituisce alla scuola la sua anima, dove ciascuno si senta abitante di una casa comune e parte di un’identità condivisa.
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