Caro direttore,
più che un ricordo, che altri più puntualmente stanno componendo, la notizia della morte di Franco Anelli, professore e rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ci spinge a condividere quello che ci lega come uomini, cittadini, abitanti della comunità umana, secondo la storia particolare di ciascuno.
Quel che si muove nel profondo appartiene solo a Dio. Appartiene dunque, più profondamente, al Padre, perché non ritira suo Figlio dall’esser dentro il tempo nostro, per sempre. È affidato, cioè, al nostro vivere insieme.
Ricordiamoci dunque quanto questo sia il compito affidato a ognuno di noi – padre madre, giovane, cittadino: guardare dove “abita” il cuore di ciascuno. Il Mistero che è la nostra vita rende questo compito qualcosa di quotidiano. Tanto che il solo pensare con gratitudine, come tutti facciamo in queste ore, a quello che il professor Anelli ha donato e dato, porta la sua vita all’altezza di questo Mistero, perché la gratuità è l’unica vera origine di ogni lavoro, di ogni dare e servire. E cosa è più gratuito del nostro bisogno di felicità, che non abbiamo chiesto di avere?
La notizia della morte di Franco Anelli ha colpito tutti, in Italia e nel mondo. Ha toccato tantissime persone, studenti dai tempi dei rettori Bausola o Lazzati fino a quelli di oggi e degli ultimi anni, appunto, proprio alle soglie del termine del suo incarico, a soli 60 anni.
Una partecipazione stupita, perché l’università è una casa che ti cresce, volenti o nolenti. Una comunità di conoscenza, di ricerca o, come forse direbbe Eugenio Borgna, una “comunità di destino”. Perché? Cosa siamo gli uni per gli altri?
In queste ore ci si sorprende a pensare che, oltre ad averlo conosciuto per le relazioni culturali e diverse iniziative svolte in università, ci si era forse sfiorati precedentemente, senza saperlo, negli ultimi anni da studente in Cattolica, nei chiostri o nelle assemblee studentesche. Toccati anche dal pensiero che tua figlia ha fatto il suo primo esame di diritto privato con lui, curatore del manuale Torrente-Schlesinger, proprio un 24 maggio, giorno in cui, al mattino, la notizia della tragedia avvenuta la sera prima ci ha raggiunto.
Insomma la memoria è affettiva, perciò la domanda che fa sorgere punta diritto al senso della vita che per ognuno di noi è argomento e pane quotidiano, di fatica, di scoperta, letizia o dimenticanza. Come accade per i tanti giovani che oggi arrancano o si ammalano per la mancanza di quella domanda sul senso del vivere, che è pane, che dà sostegno vitale, senza il quale non c’è pace, anche se non ci fosse la guerra intorno a noi. Crediamo che esso non debba mancare o, meglio, che non possano mancare mani e parole che ci invitino dove esso viene distribuito; il pane del vivere, il volto di Cristo che non si ritira dalla storia, dalla nostra storia.
È inevitabile e anche giusto distinguere tra la vita pubblica di ciascuno di noi e quella privata. E dunque quest’ultima non dovrebbe riguardarci oltre un certo limite, invalicabile. Ma ho il dubbio che abbiamo spinto il suo naturale limite più in là, con la scusa, magari, che solo Dio abita quella zona.
Non basta nemmeno il fatto che su quella privata ci interroghiamo, perché chi ha ruoli e responsabilità, di fatto, senza chiederlo, tangenzialmente o emotivamente, tocca anche la nostra vita, quella privata.
Pensiamo a quel balcone e a quell’atrio interno, in Foro Bonaparte: perché, infatti, vorremmo far tornare il tempo indietro, e dire: “no aspetta”, “non farlo”, “si può ancora…”? Trovare insomma adesso le parole che non abbiamo trovato prima. Siamo come smarriti per essere stati toccati, anche se lontani o non implicati. Perché dunque?
Pensiamo che quel nostro cuore inquieto e bisognoso, quello del nostro professore e rettore, cuore silenzioso e forse solo, sia il centro della nostra vita, della nostra società, della nostra città.
Il fatto che le nostre vite siano la ferita di un’attesa di compimento ci spinge a dire che dovremmo essere più compagni al destino, soprattutto nell’al di qui.
È tema profondo, delicato, dove tutti stiamo in punta di piedi. Ma non è la gloria umana di Cristo questo parlarsi, questo guardarsi in questo modo? Così, compagni di una ecclesia. Rimane un dolore per cui dovremmo forse essere più credenti, più audaci nel bene per l’altro.
Colpisce che in quelle stesse ore di quel 24 maggio, a Milano, un giovanissimo Carlo Acutis, cresciuto in una famiglia della nostra Milano, ci confermava con la coralità della Chiesa che il proprio desiderare e perseguire, discretamente ma senza sosta e con tutti, non è questione da eroi, ma da santi. Come ricordava sovente don Luigi Giussani in quella stessa Università Cattolica, “la volontà per un santo non è saper fare ma desiderare il desiderio di un altro”.
Carlo Acutis amava tantissimo l’Eucaristia, ne fece una mostra per Internet che si diffuse nel mondo. Il pane quotidiano di una umanità diversa, del senso del vivere condivisibile, del gusto del vivere, senza il quale ogni dare, donare, lavorare non ha senso.
Viene in mente la canzone di “Faber” De André, Khorakhanè, lo struggente motivo dedicato ai ladri di pane, agli zingari del mondo: “…e se questo vuol dire rubare/… ai miei occhi limpidi come un addio/ lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca/ il punto di vista di Dio”.
A me pare l’unico modo di spiegare senza sapere tutto: un invito a ritornare a vivere così. A me pare l’unico modo per cui finire in Cielo significhi qualcosa da ricominciare in terra.
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