“Quando sento qualcuno dire che un certo brano gli è venuto fuori in poche ore, vorrei dire: ‘e si sente!’”. Con la sferzante ironia di cui è capace, Franco Battiato spiegava a Radio 2 qualche anno fa il suo metodo di lavoro, fatto di lentezza, prove, possibilità armoniche e di arrangiamento, testi limati, sperimentazioni su diverse tonalità e velocità. Altro che miracoli di spontaneità. “E si sente!”, bisognerebbe ripetere con lui, vista l’indiscutibile qualità sartoriale che, piaccia o no, appartiene a ogni traccia della sua vastissima produzione.



Quest’anno c’è una candelina speciale da soffiare per il Maestro, perché La Voce del Padrone compie la bellezza di quarant’anni. Il 1981 stava volgendo al termine. Era ottobre e in quell’anno erano già usciti album come L’indiano di De André, Paris Milonga di Conte, Panama e dintorni di Fossati, Telefona tra vent’anni di Dalla (ma anche Guccini, Baglioni, PFM, Branduardi e via così). Una vertigine di qualità che faceva della musica dei cantautori un fenomeno di cultura popolare che non ha potuto che rimanere un fatto storico isolato, cui guardare col becco in su.



Vero però che La Voce del Padrone (il primo a superare il milione di copie vendute in Italia) fu un caso particolare e del quale, davvero, s’è detto (quasi) tutto. Sette brani, neanche trentuno minuti di musica, con i quali Battiato tentò, con successo, di proseguire sulla strada di Patriots (1980) per inserirsi nel circuito commerciale, che le sperimentazioni di Pollution non potevano certo garantire. E questo è un primo fatto cui i discografici oggi dovrebbero badare: qualità musicale e commerciabilità del prodotto possono benissimo coniugarsi, con un po’ di coraggio e di visione. Perché quelle canzoni che oggi sono parte del nostro dna culturale e del nostro linguaggio (dal Centro di gravità permanente a Sentimento nuevo, da Cuccuruccucù a Summer on a solitary beach) sono piccole preziose gemme di qualità musicale in senso ampio.



La sconfinata serie di citazioni e riferimenti a protagonisti internazionali della musica e della cultura divennero per Battiato il modo insieme per smarcarsi dalla cultura mainstream e pretendere per sé uno spazio cui guardare con rispetto e attenzione. Le negazioni d’appartenenza all’una o all’altra moda si trasformarono in un rinnovato spirito di curiosità, furono proposti suoni che nel 1981 rimbalzarono assai meno “familiari” di come lo sono oggi.

E se quei testi così anomali e fuori dal coro vennero presto imparati a memoria come tormentoni, nelle feste dei liceali si tentava di simulare quella sorta di coreografia sghemba e scombiccherata che Battiato, occhialoni da sole sul naso, s’era inventato a sua immagine e somiglianza, con un avanti e indre’ di rotule e avambracci che simulavano una marcia sul posto.

Ma La Voce del Padrone è, in primo luogo, un disco di strepitosa qualità musicale e per diversi fattori. Non solo la new age e l’elettronica trovavano una via italiana d’espressione, ma l’impasto sonoro che conseguì era una alchimia perfetta tra sonorità sinfoniche, con gli arrangiamenti per archi di Giusto Pio e i cori dei Madrigalisti di Milano, e timbri squisitamente rock, a partire dalla chitarra di Alberto Radius, mammasantissima delle dodici battute in Italia. A marcare la novità, Battiato scelse di mettere in apertura (Summer on a solitary beach) non un orecchiabile quattro quarti che facesse accomodare l’ascoltatore, ma un tempo in sei – non esattamente comune nelle canzoni dei cantautori – con un beat up tempo che strizzava l’occhio alle sezioni ritmiche del punk.

E alla fine l’album, con quel miscuglio di pianoforti che arpeggiano stilemi classici (Chopin e Liszt, soprattutto), le chitarre sature e distorte, il basso nel battere come un martello sulla cassa, risulta un album strepitosamente romantico, un inno alla ricerca della consapevolezza di sé come strada della felicità, un luogo dove le chincaglie preziose del passato si incontrano nella contemporaneità. Un album solido e malinconico, che ha nel timbro della voce di Battiato il timbro definitivo dell’irripetibilità.

Questo, dunque, va celebrato per questi quarant’anni: un metodo rigoroso e appassionato di fare musica e ricerca, attento a captare le novità portandosi dietro il bagaglio di suoni ultracentenari. E in questo senso bene ha fatto la Universal a riproporre un’edizione speciale, nonostante che sette mesi di anticipo – giustificati con il compleanno dell’artista, 76 anni proprio ieri – sull’effettiva uscita lascino intravedere un’ombra speculativa sull’artista siciliano, d’altronde già censurata in occasione dell’uscita, nel 2019, di un inedito (Torneremo ancora), per il quale ancora s’attende un espresso cenno di consenso di Battiato.

Nei multiformi formati proposti, c’è anche un vinile blu da collezione, si può gustare il lavoro di remix fatto sei anni fa da Battiato con Pino “Pinaxa” Pischetola sull’album, contenente versioni leggermente differenti dagli originali. Il risultato, merito del miglior ingegnere del suono sulla piazza (i Depeche Mode, per dire, debbono moltissimo a lui del suono che li ha resi miliari) è un album in dolby atmos (destinata per ora alle piattaforme di Tidal e Amazon), il primo in Italia, con una qualità di suono in alta fedeltà, capace di tradurre anche il minimo movimento degli archi in un godimento intellegibile e completamente nuovo. Ed è bellissimo perdersi, di nuovo, in quell’incantesimo.

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