La scomparsa di Franco Cerri, un protagonista della cultura dello scorso secolo, è stata interpretata diffusamente dalla stampa nazionale come un fatto minore. Qualcuno in servizio presso redazioni “pesanti” si è interrogato se la notizia andasse data, in che punto del giornale e se necessitasse “addirittura” di qualche commento.
Si è trattato di un cattivo servizio non tanto e non solo ad un musicista che ha dato lustro internazionale al nostro Paese, ma alla memoria e alla capacità di leggere con senso della realtà i fenomeni culturali. Si è tolta la foglia di fico ad un fatto strisciante e potente che si può riassumere efficacemente come analfabetismo di ritorno del giornalismo maiuscolo. Come è noto, con tale espressione ci si riferisce all’effetto per cui la scarsa pratica di competenze si traduce in una consolidata incapacità di raccontare fenomeni. A forza di non parlare, ci si dimentica come si fa. Su questo, forse, bisognerebbe soffermarsi a ragionare un po’ di più.
La furia della rete e di quelli che, invece, assumevano di avere “memoria” si è indirizzata, in particolare, con l’aver parlato di Cerri come dell’uomo in ammollo della réclame. Quasi ottant’anni di professionismo musicale e impresa culturale tradotti nello spot di un detersivo. Qualcosa di simile accadde nel 2010 quando si spense un altro protagonista degli anni d’oro del jazz in Italia, Nicola Arigliano, derubricato a “quello del Digestivo Antonetto”. Si è trattato di uno sdegno, sia detto in modo chiaro, più che giustificato, perché teso a rimarcare il pressapochismo di cronaca: l’appeal del rimando ad un ricordo condiviso (la pubblicità) usato come sgorbio per tratteggiare una biografia di cui tutto si ignorava. Ma tempo per studiare, approfondire, capire (visto che non necessariamente i professionisti dell’informazione debbono essere sapienti e onniscienti) non esiste da un pezzo nei giornali. Un cocktail esplosivo di sciatteria ed ignoranza.
Ci sarebbe stato, invece, un modo più sincero di raccontare l’uomo in ammollo e avrebbe richiesto di spolverare qualche pagina degli studi di semiotica e linguistica di un altro nostro gigante, Umberto Eco, che al fenomeno nascente della comunicazione di massa e della pubblicità dedicò molti libri, a partire da Apocalittici e integrati del lontano 1964. E allora, forse, il chitarrista lombardo sarebbe potuto esser tratteggiato con tutt’altro spin. Erano quelli gli anni in cui, nel bene e nel male, si sceglievano miti popolari per diffondere messaggi pubblicitari, una apparente contraddizione perché il popolo (di suo) considera la figura mitologica come inattingibile e inaccessibile; invece, gli eroi scendevano, in senso figurato, dal loro monte e si facevano medium di messaggi di massa. Si pensava, nelle più ottimistiche delle versioni, che coinvolgere artisti negli spot avrebbe favorito una maggiore democratizzazione e circolazione della cultura. Pubblicitari e imprese avrebbero, dal canto loro, fatto più cassa. Tutto contenti, diciamo.
E invece quella presenza mediatica, che danneggiò moltissimo Cerri per l’effetto straniante sul proprio mestiere di musicista, racconta un Paese diverso e forse anche la speranza frustrata di ciò che saremmo potuti essere. Che bel segnale sarebbe, sia detto con relativo senso del paradosso, immaginarsi Enrico Rava o Enrico Pieranunzi reclamizzare deodoranti e detersivi. Vorrebbe dire che il jazz è permeato talmente a fondo nella cultura popolare, musicale ma non solo, da poter diventare un brand commerciale, che la gente sia più invogliata a comprare perché lo dice un famoso batterista o pianista. C’è stato un momento negli anni ’50 e ’60 in cui la traduzione italiana del linguaggio afroamericano, fatta da super musicisti con grande passione e cultura, ci ha reso credibili partner di stelle internazionali (Cerri ha suonato con Django, Wes Montgomery, Billie Holiday, Chet Baker … nomi da far tremare vene e polsi) e insieme fruitori di un genere che è nato popolare e con un dna fatto di condivisione e senso della comunità. Il bop suonava nelle radio, si vedeva in tv mescolato tra presentatori e balletti, gli si dedicavano programmi interi. E invece (per una articolata concausa di sfortunati eventi) jazz, televisione, radio e massa hanno iniziato a separarsi fino ad arrivare all’attuale forbice. Non sono cambiati i gusti, è cambiato un certo piglio elitario di chi suona quella musica, offeso della scarsa considerazione. Non è cambiata la propensione all’ascolto, è cambiato il coraggio dei direttori dei palinsesti di portare la musica di qualità nelle case, alle persone evidentemente ritenute incapaci di “capire”.
A lungo andare, ci si disabitua alla bellezza, qualcuno pensa di poter farne senza, qualcuno ritiene un valido programma politico anestetizzare i più, qualcuno, alla fine, crede che la musica sia quella che si suona nelle radio e quando scompare Franco Cerri nelle redazioni analfabete di ritorno ci si domanda se vada data o meno la notizia.