Io ho la fortuna di essere un pianista e posso continuare a costruire il mio futuro con la musica”. Con ottanta candeline ancora fumanti, parla di progetti, idee, fantasia, ottimismo. Non c’è ascesi sapienziale, nessuna traccia di derive new age e neanche la quiete rassegnata di chi sceglie l’attesa sulla riva della conquistata eccellenza. Franco D’Andrea, padre nobilissimo del jazz, racconta i suoi oltre sessant’anni di musica con serenità consapevole pari alla inesauribile curiosità che lo attraversa. Molti più programmi che bilanci. Concentrato sull’insegnamento, attento ai nuovi suoni, il suo anno di pandemia l’ha vissuto come un’opportunità per disegnare progetti, due dei quali – ancora in progress – tiene gelosamente segreti.



Per fortuna in questi giorni è uscita una sua documentatissima biografia a firma Flavio Caprera (Franco D’Andrea, un ritratto; introduzione di Enrico Rava – EDT), perché per fare il punto, anche solo come carrellata di nomi e di collaborazioni stratosferiche del pianista tirolese (è nato a Merano l’8 marzo 1941), servirebbero pagine su pagine e ancora non si esaurirebbe il resoconto del suo contributo allo sviluppo del jazz internazionale. A IlSussidiario.net ha raccontato storie, personaggi, visioni e prospettive con desueta disponibilità, dotato di quella “buona pasta” ben nota a chi lo abbia frequentato.



Che effetto fanno questi 80 anni?

Sa, sono più che altro un numero, bello pieno. Certo io sono contento: se mi avessero detto quarant’anni fa che oggi sarei stato in grado di fare le cose che faccio oggi non ci avrei creduto. Non è una banalità rispetto a tanti dei miei coetanei. Io, sinceramente, riesco a immaginare un sacco di musica da suonare e sono felice.

C’è un momento della vita che ricorda in modo più significativo?

Probabilmente i 40 anni, quando ho registrato all’inizio del 1980 i primi due album a mia firma (Dialogues with Super-Ego e Es, NdR). Fino ad allora bene o male ero stato dentro forme cooperative di creatività come il Modern Art Trio o in progetti nati da altri, come il Perigeo che fu un’idea di Giovanni Tommaso.



… due album a solo che evocano concetti freudiani. Crede che il metodo psicanalitico sia in qualche modo affine all’approccio improvvisativo nel jazz?

Certamente. In particolare, in quelle incisioni si alludeva pesantemente alla psicanalisi in chiave freudiana; io d’altronde avevo molto bisogno di voltare pagina, approfondire conoscenze che mi dessero la spinta ad intraprendere qualcosa di nuovo ed importante. Occorreva essere soli, fare un lavoro di introspezione.

Però all’inizio degli ’80 lei era già molto noto nel jazz e non solo per aver portato in Italia suoni fino ad allora inauditi

Il Modern Art Trio, in effetti, si muoveva dentro il free e noi lo intendemmo come un manifesto culturale vero e proprio, l’idea era di aprire il nostro jazz ad altre forme d’espressione, mentre il Perigeo era dentro l’idea di progressive vero e proprio, erano gli anni di Bitches Brew ma non solo.

Già, anni incredibili come fermento i Settanta, che ricordi ne ha?

C’era nell’aria un’energia speciale. Vivevamo quel periodo come un preludio a qualcosa di veramente nuovo che sarebbe dovuto accadere; ricordo che c’era una vera e propria ebbrezza, una foga di riuscire a trovare nuovi sentieri e poi, in fondo, eravamo ottimisti, perché il futuro lo immaginavamo pieno di creatività. Un fascino vertiginoso, davvero …

E poi cosa è successo? Quella musica veniva presentata alle Feste dell’Unità, alle Cascine, al Parco Lambro, spazi enormi oggi impensabili per musica d’avanguardia.

Credo che questa energia piano piano abbia cominciato a rifluire in una situazione più intellettuale. C’era bisogno di codificare quell’esperienza così avanzata e quindi il cervello ha preso il posto del cuore. Però, attenzione, è qualcosa di normale: quando si devono interpretare nuovi movimenti, c’è il rischio che la musica si “raffreddi” dal punto di vista della comunicazione. Questa intellettualizzazione io l’ho già iniziata a sentire negli anni ’80, non è una novità, ma c’era comunque bisogno di mettere in ordine qual caos, l’onda anomala delle avanguardie.

Ma oggi il jazz come sta? Si direbbe con artigli un po’ spuntati.

No. La mia idea è che il jazz subisce il contraccolpo di ciò che succede nelle società occidentali e oggi ci troviamo in una strana situazione, diciamo così. Semplicemente, in questo momento storico stanno muovendosi cose, molte delle quali non riusciamo a comprendere, e nonostante si provi a sistematizzarle, si resta ancora in uno scenario frammentato. Diciamo così: non si sa bene dove l’Occidente voglia andare né dove finirà e la musica risente di questo aspetto. E’ una questione di allineamento tra istanze esteriori ed interiori …

In che senso?

La tecnologia sta correndo velocissima, prodigi straordinari e difficili da metabolizzare in tempi rapidi. Ricordo che Rita Levi Montalcini, che era anche una grande divulgatrice scientifica, disse che la corteccia cerebrale è molto veloce a elaborare gli stimoli esterni, razionalmente. Però noi abbiamo istanze più profonde, che sono la nostra storia, anche molto antica, e questa componente è più lenta: se non si allineano questi due fattori, se non vanno d’accordo non è possibile alcuna comunicazione, c’è un cuore che arranca dietro al cervello. Guardi, ci vuole tempo! Questo è il punto.

Vede un ritorno del jazz a musica popolare e condivisa non solo da élite intellettuali?

Io sono del parere che tutta la storia, quindi anche quella del jazz, vada ad ondate, non si tratta di un percorso lineare. Di conseguenza ci sono momenti bassi, dove non succede nulla, e momenti pazzeschi. Io sono molto ottimista: quando una musica è solida, ha basi importanti, una tradizione forte ed una vocazione all’apertura ebbene si hanno i requisiti per attrarre dentro gli stimoli nuovi che verranno. Ora forse siamo in una risacca, un tempo di bonaccia con il mare increspato solo da qualche ondina. Però sono fiducioso che avverrà qualcosa, anche perché i giovani musicisti di oggi hanno una grande tecnica, padronanza del linguaggio e del loro strumento, sono bravi arrangiatori. Serve solo che intravedano una direzione e questo non accade solo per vie musicali, ma ci sono motivi psicologici, sociali, umani in senso ampio.

E nel frattempo che ascolti fa Franco D’Andrea?

Tutto, resto curioso di ogni fenomeno musicale. Però resta un punto fisso Monk, che va sempre bene. Una volta a Steve Lacy domandarono perché suonasse spesso brani di M. e lui disse una grande verità: è inesauribile, un pozzo senza fondo, ci vorrebbe più di una vita per scoprirlo tutto. In questo ultimo anno, poi, mi vado a cercare ogni genere: classica contemporanea, il Novecento europeo, la musica del West Africa e poi mi sono dato il tempo di scoprire un gigante come Andrew Hill. Sono 40 anni che ho percepito che si trattasse di un musicista straordinario, ma non avendone il tempo lo ascoltavo senza capirci granché. Le sue strutture, il suo modo di pensare mi mettevano in scacco matto. Ecco, è arrivato il momento buono e ho trovato uno dei grandi del jazz, soprattutto negli anni della Blue Note tra il ’63 e il ’69.

Insomma, un anno difficile per tutti, ma che lei ha affrontato con positività. Certo, il comparto musicale ha subito gli effetti di questa pandemia più di altri, non crede?

Certo, ma ci sono stati tanti settori ad esser stati toccati, non solo il nostro, faccio fatica a pensarla come una questione esclusiva. Però serve fiducia nel futuro, dobbiamo investire a tutti i costi per tener vive alcune cose, la cultura è una di queste: senza diventiamo delle bestie. Investire, sia chiaro, vuol dir metter denaro in questa direzione e, nel mantenere la barra dritta, vuol dire anche usare la fantasia.

La fantasia?

Serve sempre, nei periodi bui ancora di più. Aiuta a risolvere le questioni da altri punti di osservazione, occorre esser disposti a rischiare qualcosa in una direzione che si intuisce buona. Questo è quello che deve fare chi ha il potere di decidere: scoprire il modo giusto per uscire da questa situazione, non solo con i soldi.

Franco D’Andrea non si pone mai, ma proprio mai, come un venerabile maestro e se gli chiedi qual è il filo rosso che lega gli Hot Five al suo linguaggio così raffinato risponde che è solo quello che è capitato a lui nella vita, non una necessità. Racconta la sua formazione avvenuta in modo “selvaggio”, la scoperta stupefacente del jazz, gli ascolti senza una precisa direttrice cronologica tra andate e ritorni e le incredibili collaborazioni maturate tra bop, free, traditional e fusion. No, nessuna voglia di bilanci, ma l’urgenza di andare ancora ed ancora avanti, on the sunny side of the street.

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