Martedì sera, la prospettiva del mare da fine settimana ancora lontana. Le serate estive romane sono la promessa del “ponentino” e dietro i pini della Casa del Jazz, tra le mura latine, prima di Caracalla, c’è una luce rosa e rossa all’imbrunire che avrebbe incantato William Turner. Gli astronomi promettono che nottetempo comparirà anche la “luna delle fragole”, una rarità; sarà più color pompelmo, a dire il vero, ma quella palla gigante a est del palco costringerà tutti col becco in su.



Ho sempre pensato che se vuoi raccontare un concerto devi esserci da prima, vedere gli spazi riempirsi, rubare le chiacchiere tra chi aspetta, vedere i leggii sul palco. Della musica, alla fin fine, cosa si può raccontare? Bella o brutta? Descrivi un’emozione senza essere neanche da lontano Proust? No, molto della partita si gioca lì, quando fonici, musicisti, produttori, pubblico, baristi, giornalisti, discografici sono mescolati e non sanno l’uno dell’altro. Se no è mestiere, se no puoi scrivere senza andare, già sai cosa succederà.



Suona Franco D’Andrea con un’orchestra nuova di zecca, ha scritto e arrangiato musiche per raccontare il XX Secolo, le sue irrisolte inquietudini. E’ la prima di questo progetto, stasera si registra il cd per le edizioni del Parco della Musica. I musicisti chiacchierano tra il brecciolino e il prato del più e del meno; Maria Teresa De Sanio ha lasciato il violino e gira elegantissima come fosse La Scala in inverno (non sono magnifici i dress code dei musicisti in nero, per rispetto della musica e del pubblico?), scherza con colleghi e amici. In un capannello si discute il problema di un la minore, che ha dato grattacapi in qualche conservatorio del Sud il giorno prima; Massimo Nunzi, che di orchestre ne sa qualcosa, sparlotta, sereno e curioso, mentre tutti entrando lo salutano con amicizia deferente (non è magnifico il rispetto guadagnato col lavoro più che per rendita?); non solo Marco Sinopoli, ma chiunque si sia compromesso la vita con composizioni e arrangiamenti orchestrali, è presente per capire che cosa accadrà.



Luciano Linzi è il direttore artistico della Casa del Jazz; la cura con l’amore di una piantina aromatica su un dehor fragile e prezioso, annusa l’aria, gira con sguardo tranquillo, mi dice che è soddisfatto della partenza della stagione, il cartellone è solido. Merito di tutti, è sempre merito di tutti i lavoratori di questo sgangherato/meraviglioso mondo di note.

Sul fare della sera, arriva un signore anziano. Ma io lo so chi è, ha quasi 82 anni, è Franco D’Andrea, è la musica jazz contemporanea italiana da sessant’anni. Scarpe con la para di gomma comoda, giacca blu e camicia a righe. Si presenta al controllo subito dopo la biglietteria e dice timidissimo: “scusate, posso entrare? Io sono il pianista”. Una tenerezza infinita per quella nobiltà di cuore. What else?

Parte la musica nuova. E’ bella, è molto bella. Nel giro di dieci minuti a Filippo Fattorini, primo violino, gliene capita di ogni: archetto sfibrato e crini da strappare, mollette reggi spartiti in terra, si vaporizza nell’aria il suo pensiero a forma di imprecazione, ma resta immoto e all’apparenza noncurante. Eduardo Rojo che ha arrangiato pezzi che sarebbero garbati – e molto – a Mingus, si confonde in platea, mentre Tonino Battista dirige con entusiasmo e una gioia per i suoi musicisti che fa commuovere; a ogni chiusura, quando fa alzare il solista per fargli guadagnar l’applauso, spinge le mani in alto incitandolo, vorrebbe abbracciarlo, è felice. A lui va, forse, il merito più grande della serata musicale, tanto solida e attenta grazie alla tenuta di un direttore gentile, ma rigoroso.

Ci sono tre ragazzini, soprattutto, avranno undici o dodici anni; sul fare della sera si inseguono, corrono, ridono e ti viene da pensare: povere creature, deportati da genitori scalmanati ad ascoltare musica difficile! Cluster, dissonanze, poliritmi, atonalità. Tsè. Me li ritroverò tutti e tre accanto, proprio davanti al palco: immobili, rapiti, attentissimi. Si spiegano, sottovoce, i ritmi e il groove di Roberto Gatto, lo battono sulle ginocchia sbucciate, simulano i vibrati di violoncello con l’arco, è chiaro che studiano musica, è chiaro che amano moltissimo essere lì e sono la nota di maggior speranza di questa notte con la luna di fragola.

E io me li ricordo di discorsi da coprifuoco, quando qualcuno s’illuse che lo streaming potesse alla fin della fiera sostituire il live, comodi sul divano, è il futuro, bellezza! Non ti piace? Sei fuori. E invece no, la musica è e resterà tra le brezze delle serate estive o nelle coltri nebbiose di sale invernali, negli stadi degli Stones e nei club per giovani cantautori. La musica è la gente che passa e si incontra e commenta e suona. Questa volta il futuro deve attendere un bel po’, le pernacchie sono gradite.