Se la città ha una memoria, Franco Loi era un luogo che la svolgeva.
È morto ieri, alla vigilia ormai prossima del suo 91esimo anno, uno dei più significativi poeti e scrittori del dopoguerra, nato a Genova ma milanese in tutto e per tutto.
Nel 2021, anno che inizia con l’approssimarsi del centenario del suo amatissimo Dante. “I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando”, questa è la poesia, ripeteva, quasi a chiunque e incessantemente Franco Loi. E io voglio essere un poeta, cioè un uomo.
Da qualche mese Silvana, la cara moglie, acuta osservatrice e custode dell’humus della poesia di Loi, dopo lunghi anni di malattia, aveva lasciato vuota la casa di viale Misurata a Milano, dove hanno vissuto insieme e dove centinaia di persone hanno potuto ascoltare, imparare, discorrere con lui in questi tanti anni che oggi sembrano, proprio per questo, buttarci addosso una grande e improvvisa mancanza.
Sì perché Franco Loi è stata una presenza nella città, discreta, lontana dalle mosse istituzionali e celebrative di Milano, ma vicino, dentro la vita di tanti, di tantissimi giovani. Uno sempre fedele ai rapporti, anche antichi, in attesa, con la discrezione che si rinnovassero. Nella lunga frequentazione che ho avuto la fortuna di avere con lui, attraverso il Centro Culturale di Milano, mi era sempre evidente che gli incontri, le cose, le vie della città, gli eventi umani e urbani piccoli e grandi, precisamente da lui individuati e motivati, erano immediatamente percepiti da lui come una umanità che si svolge e che prende posizione nel mondo. Presenza perché vedeva e quindi sapeva, pur nella grande discrezione, qual era il motivo del tuo agire, la tua vera moralità, anche di quelli da cui riceveva lodi e premi. Non quella superficiale dell’onestà, da autentico ex comunista – ben presto da giovane si staccò per ipocrisia dell’ideologia che tutto giustifica – sapeva che quel che resta e si vede è il motivo ultimo della tua vita, della tua azione, del tuo parlare: la tua umanità.
Solo così si spiega, oltre la fedeltà ai rapporti, la sua pazienza a leggere i testi dei giovani poeti, a consigliarli, la sua consuetudine con lo stupore, così come la capacità, potremmo dire paternità, di dire il limite, indicare il lavoro che ancora manca. Quanto più entrava negli anni guadagnava in senso ultimo. Quel riferimento a Dio, alla figura di Cristo, che da giovane aveva cercato anche scontrandosi, il più grande, come lo chiamava, lo ripeteva e indicava sempre più spesso in tutti questi ultimi anni.
La lingua che aveva scelto, come poeta, era quella della città dove era approdato, quel milanese che non era meneghino – sul quale gli scolastici storcevano il naso, anche a ragione – ma era la lingua della città. Il parlato nutrito dell’esperienza di “quegli” uomini di “quella” città. Una città aperta, di immigrati, dove sciamavano gli operai che Loi osservava e ascoltava, una lingua nuova aperta e assorbente. La sapienza del volgare e la cultura del volgare unita ai grandi classici, Dante, Leopardi. In questo assolutamente un pasoliniano a Milano. Una scelta tanto controcorrente e perché non spiegabile col solo concetto di radici, di “grande Milano”, di popolare. La stessa di quel Giacomo Noventa nel suo Friuli, poeta grandissimo sul quale calava già l’oblio del rumore della città borghese contemporanea e che come in simbiosi indicava come un maestro sapiente e dimenticato.
Lo stesso percorso lavorativo di uno del popolo, dallo scalo merci di Lambrate all’ufficio stampa della Mondadori, passando dalle pr di allora della Rinascente. Uomo di casa editrice, redattore culturale del Sole 24Ore. Oggi la sua poesia, i tanti libri e raccolte premiate, coi riscontri positivi di Fortini e Dante Isella – oltre il bellissimo Pensiero dominante. Poesia dal 1970 al 2000 di Garzanti, una storia e antologia contemporanea frutto di centinaia di incontri e letture, scritta con Davide Rondoni – saranno lette e studiate come meritano. Perché sino ad oggi era lui a leggerle, noi ad ascoltarle. Ovunque, in città e in Italia, nei circoli e nelle scuole ai teatri più grandi dai quali era cercato, anche musicate come dai grandi amici Umberto Fiori, poeta ed ex leader degli Stormy Six, gruppo musicale al servizio del Movimento studentesco, e Tommaso Leddi.
Me lo immagino ancora oggi in fila, tra vari giovani, per parlare con don Lorenzo Milani, a Barbiana, mandato lì da don Luigi Giussani al quale aveva confidato il suo cruccio sociale, l’insoddisfazione politica. Il sacerdote milanese aveva pensato a lungo una proposta adatta a lui, ed era quella. “Ah tu sei l’intellettuale di Milano… in fila dietro gli altri!” disse don Lorenzo. Ma quando accennò che lo mandava don Giussani il prete lo volle vedere per primo.
La poesia non è intimismo, è pubblica, ma non per genere o soggetti, ma per verità di esperienza. Da Casoretto, dove abitava, a poche centinaia di metri da piazzale Loreto, quattordicenne, assiste all’eccidio degli operai e all’ostensione dei corpi dei gerarchi fascisti trucidati. Un’ unica immagine dove si fondono le ingiustizie, il limite, il male che l’uomo non vorrebbe riconoscere, l’alterità che dovrebbe abbracciare.
Loi si allontana dalla politica continuando a mostrare, potremmo dire, come la prima politica è vivere, con verità. Si definirebbe la sua una religiosità anarco-libertaria.
La poesia di Franco sono immagini che sorgono dalle cose, dalle case, “dettano dentro”, come un Angelo che lo accompagna per la città. È l’Angel, persona sublime ma reale, titolo anche di un famoso poema in versi. Franco diceva con assoluta precisione e nostalgia “mi sono sempre considerato amanuense di Qualcuno”. Forse per questo in un’Italia confusa uno come Loi fu quasi arrestato a Venezia, alla stazione, nel 1983: era uscito il suo nome come uno dei possibili del “Grande vecchio”, il super-ricercato ispiratore colto delle Brigate rosse, mentre il male era in mezzo a noi.
Loi vedeva e coglieva le pieghe delle personalità, le tratteneva in sé. Nelle ultime nostre conversazioni ricordava spesso come fosse colpito dalla cura gratuita che un prete impegnato come don Giussani avesse per un suo carissimo amico pittore, ancora più lontano di lui dalla Chiesa, una grande figura di artista e dal tempo che trovava verso sera per andare in ospedale. Fu una delle ultime volte che vide di persona il sacerdote ambrosiano.
La tua casa è stata la città, l’umano bambino e adulto che la percorreva. La tua casa, ora vuota era semplice, bella e accogliente come quelle delle famiglie di Milano, dove i figli crescono. La tua biblioteca, anch’essa semplice, lineare, usata, non ostentata, anch’essa semplice e conosciuta a memoria: da alcuni anni è indirizzata all’Università Cattolica dove sarà consultabile. Giustamente, perché quello è il luogo da difendere, da cambiare ancora, dove ho incontrato i miei maestri, dove vivevano i tuoi compagni di cammino.
La città è cambiata, ripetevi spesso, anche con un certo sconforto. Solo il risveglio di una umanità, di una fedeltà all’umano che è in noi la renderà autentica e non finta. La sfida è difficilissima. Tanti che l’avete conosciuto, la presenza di Loi è questo testamento che supera il nostro smarrimento per la bellezza che sapeva guardare e scorgere, sempre nitida, permanente e ironica.