È morto Franco Loi, nella mattina di ieri, nella sua Milano. A tenergli la mano sua figlia Francesca, che lo ha assistito negli ultimi anni, quando era ormai affetto da una cecità inguaribile e da scompensi cardiaci. Avrebbe compiuto 91 anni tra due settimane, 56 passati a comporre versi. Nato a Genova, Franco Loi nella città dove trascorrerà il resto della sua vita ci arriva nel 1937, per seguire il padre ferroviere. Passano gli anni della guerra e della lotta civile, che lo vedono impegnato attivamente, e si diploma in ragioneria nelle scuole serali. Poi fa l’operaio, il contabile, l’addetto alle pubbliche relazioni per Rinascente e infine, dal 1960 al ’67, per la Mondadori. È qui che viene scoperto dal poeta Vittorio Sereni, a quei tempi direttore letterario della casa editrice.
Sono anche gli anni dell’impegno politico. Si iscrive al Fronte della gioventù e alla Federazione giovanile comunista, quindi milita nel Pci fino al 1962 e nella sinistra extraparlamentare.
Vive immerso in una Milano frenetica e movimentata, piena di vita e di passioni. E quel dialetto che impara per la strada da quegli umili di cui racconterà gioie e dolori diventa la sua lingua poetica. Non subito, ma solo nel 1973, quando pubblica la sua prima opera vernacolare, “I cart”, pubblicata dalla casa editrice “Edizione Trentadue”. Dopo un anno esce “Poesie d’amore”, edito da “Il Ponte”, e un anno dopo ancora uno dei suoi più grandi successi, espressione della sua piena maturità stilistica, il poema “Stròlegh” (tradotto: “astrologo”), edito da Einaudi con la prefazione di Franco Fortini. Seguono poi “Teater” nel 1978, “L’angel“, sorta di romanzo in versi edito nel 1981 e poi nell’edizione definitiva del 1994. E infine “Amur del temp” del 1999, “Isman” del 2002 e “Aquabella” del 2004.
Franco Loi, la voce di una Milano popolare
Franco Loi è stato una figura centrale della vita letteraria del secondo dopoguerra italiano e milanese in particolare. Tra i massimi poeti dialettali, la sua opera è stata apprezzata da figure di spicco come Dante Isella, Pier Vincenzo Mengaldo, Franco Brevini. Il suo umanesimo sociale ha sempre avuto gli occhi aperti sulle sofferenze degli ultimi e sulle domande ultime dell’uomo. Occhi che negli ultimi anni sono andati sempre più annebbiandosi, impedendogli infine di scrivere. L’orgoglio civile e l’ardore politico lo hanno guidato per tutta la vita, facendogli dar voce al quel popolo a cui lui stesso sentiva di appartenere e nella cui lingua ha voluto esprimersi. Il dialetto lo ha scelto perché «è la lingua dell’esperienza e quindi della vita». Poche ore fa, appena si è diffusa la notizia della sua morte, il sindaco di Milano Giuseppe Sala in un post ha scritto: “Apprendiamo con tristezza la notizia della sua scomparsa. Milano ricorderà la sua straordinaria lirica colma di realismo, capace di mescolare diversi elementi e influenze”.