“Bisogna essere grandi per capire la grandezza”. Ho ripensato a lungo a quella frase lasciata andare nel vento, un soffio tra gli alberi di viale Misurata.

A casa di Franco Loi non si parlava appena di poesia: lei era già lì nel suo farsi, silenziosa e discreta presenza ad ascoltarti come Silvana, compagna di una vita. “Il farsi parola al mondo è santità” ha scritto in Isman Francesco Loi e ancora rivedo il suo sguardo curioso spalancarsi di fronte al mistero della vita: ombre, nuvole, rami, voci del vento, uccelli, musiche che giungono da lontano…



Una sorta di stupore francescano bruciava in quegli occhi che ti guardavano dentro, mettendoti a nudo: “vèss òm e vèss puèta”, uomo e poeta venivano a coincidere con imprevedibile naturalezza. Ma anche qualcosa di buio e terragno tormentava la luce dei suoi endecasillabi, i corpi dei fucilati e degli impiccati di guerra si confondevano a quelli dei buoi squartati agganciati nel macello di Limito, dove “l’aqua l’era l’aria de la mort”. Nel canto della sua poesia entrava, incendiandosi, una vita intera. La Milano dell’infanzia col suo miracolo di tram, cieli e strade ma anche il dolore della storia con il “tuonare dei cacciabombardieri e dei bruciati vivi”. E la grandezza di Loi – “Franco” per gli amici – era forse tutta qui: nel canto totale della vita che si tramutava in poesia, prendendo la forma di quel milanese che aveva a lungo ascoltato dalla gente del popolo.



A Franco, grande lettore di Dostoevskij e dei narratori russi, interessava sondare il mistero dell’uomo e di Dio. Eccolo qui l’uomo e il poeta, che pur nella paura “de vèss un’aria, un buff… duè murí…” (di essere un’aria, un soffio… dover morire…) se ne sta lì ad ascoltare e captare i segnali del mondo, come i cani “che bàjen a la lüna per natüra, / per la passiensa de stà lí a scultà” (che abbaiano alla luna per natura, / per la pazienza di star lì ad ascoltare).

Aprite i libri di Loi, da I cart alle Voci d’osteria, li troverete tutti percorsi da un’aria sottile che scende a dare vita alle cose del mondo. All’isolamento nella torre d’avorio della letteratura Loi ha contrapposto la libertà di quest’aria che conosce la vita e soffia negli uomini la sua musica leggera: “Oh tì maestra / che de la vita sa, tì ligerina, / frina me sona e, squasi ‘me se l’estra / luntan mì me purtàss d’una matina” (Oh tu maestra / che della vita sai, tu leggerina, / frinendo mi suoni e, quasi come se l’estro / lontano tu mi portassi di una mattina).



Rivedo Franco, in una torrida serata di fine giugno, leggere De Diu sun matt sul nostro palco improvvisato di bancali di legno:

De Diu sun matt, se streppa la cusciensa.
Vu ‘n gir, el pensi, me ‘l remèni, e vu…
E püssè ‘l pensi, e pü ghe sun luntan.
Diu l’è schersûs… L’è cume fa la lüna,
ch’i mè penser în nüver, e lü se scund.
Inscì, me tundi via, parli cuj òmm,
e matta l’è la lüna, ciara lünenta,
cun la sua lüs che slisa ne la nott.

(Di Dio sono pazzo, si strappa la coscienza. / Vado in giro, lo penso, me lo rimugino, e vado… / E più lo penso, e più gli sono lontano. / Dio è scherzoso… È come fa la luna, / che i miei pensieri sono nuvole, e lui si nasconde. / Così, mi distraggo, parlo con gli uomini, / e matta è la luna, chiara luneggiante, /con la sua luce che scivola nella notte.)

Per spiegare quel verbo etereo, “slisa”, si era avvicinato al primo della fila sfiorandogli con le dita i capelli, la mano a mostrare il movimento del vento che scivola leggero, lasciando un segno. In quel gesto c’era tutta la statura del poeta: il realismo della sua poesia ma anche la vena profonda, lirica, che nasceva da quella “vûs fina” capace di esprimere con inaudita forza il nascere del sentimento.

Leggete l’attacco del suo Stròlegh, troverete la grandezza dell’invenzione e la libertà del canto, vedrete le chiome dei tigli prendere vita nell’ombra, farsi briciole d’aria e brezza degli alberi, arbrisa: “e l’era l’aria, o l’era la granisa / di tilli al Leuncavall che grapelaven / d’un duls smuccius e d’un umbrià d’arbrisa” (e era l’aria, o era la graniglia ghiaccia / dei tigli che, verso via Leoncavallo, penzolavano a grappoli / di un dolce smoccioloso e di un ombreggiare di fogliami mossi dalla brezza).

E ora che il grande Franco Loi già ci manca sorrido ad immaginarlo così, un angel d’aria a spasso per le vie del suo Casoretto, nella silenziosa nevicata che trasforma via Teodosio in bianco paradiso. Con gli occhi spalancati a guardare la terra rovesciarsi in cielo, “nel scirussà de fiocca”. Fermo nel vortice della neve, attraversato ancora una volta da quell’aria e con lei una nuova, misteriosa allegria.