Franco Mottola, ex comandante della caserma dei Carabinieri di Arce, sua moglie Annamaria e il figlio Marco Mottola sono stati accusati dell’omicidio di Serena Mollicone avvenuto il 1° giugno 2001 in provincia di Frosinone. La vittima aveva 18 anni e fu trovata senza vita in un boschetto dell’Anitrella, la testa chiusa in un sacchetto di plastica, mani e piedi legati con fil di ferro e nastro adesivo. Secondo l’impianto accusatorio, a ucciderla sarebbe stato Marco Mottola durante una lite proprio dentro la caserma di Arce, e i genitori lo avrebbero coperto.



Imputati nel processo scaturito dal rinvio a giudizio disposto nel 2020, i Mottola sono stati assolti in primo grado nel 2022, all’esito del primo iter giudiziario conclusosi davanti alla Corte d’Assise di Cassino. Nel 2024, assoluzione anche in secondo grado con la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma. Assolti anche i due carabinieri Vincenzo Quatrale e Francesco Suprano.



Chi è Franco Mottola, Annamaria e Marco assolti anche in appello: le motivazioni della sentenza

La tesi accusatoria è che Serena Mollicone sia stata colpita dentro la caserma di Arce da Marco Mottola, durante una violenta lite nella quale la testa della ragazza avrebbe impattato contro una porta. La sua morte sarebbe avvenuta per asfissia dopo ore di agonia e dopo aver riportato una lesione al capo compatibile, secondo i periti, proprio con i segni sulla porta sequestrata dagli investigatori.

Per l’accusa, i coniugi Franco e Annamaria Mottola avrebbero aiutato il figlio Marco a disfarsi del corpo e a cancellare ogni traccia a lui riconducibile. In primo grado, i pm chiesero condanne a 30, 24 e 21 anni di reclusione per Franco Mottola, per il figlio Marco e per Annamaria Mottola. 15 e 4 anni di carcere le richieste per i carabinieri Vincenzo Quatrale e Francesco Suprano. Tutti poi assolti. Lo stesso esito in appello, nel luglio scorso, perché secondo i giudici romani non ci sono prove certe di un coinvolgimento dei Mottola nel delitto di Arce. La Corte d’Assise d’Appello di Roma ha sottolineato l’assenza di elementi che consentano di esprimere un giudizio di colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”.