La stampa si è occupata di recente di Sigmund Freud, tornato sorprendentemente d’attualità, con articoli di commento su lui e il suo cane Jofi comparsi su Repubblica e Corriere della Sera, a corredo di molti altri già presenti in rete. Curioso. Chissà cosa ne avrebbe detto Freud stesso, un pensatore fuori dal coro che non separa l’alto e il basso, l’apparentemente futile dalla sua valenza critica, culturale e civile. Curioso, dicevo, che il focus portato su Freud dalla cultura attuale, poco importa se d’intrattenimento, cada sul rapporto col cane, nobile rappresentante del regno animale, e non sulle relazioni tra le persone, i sessi, le istituzioni, gli stati.
Tutti gli articoli a portata di click, recenti o meno, alludono a un Freud precursore della pet therapy: una vera fabbrica di fake news, perché lo scienziato viennese di altro non si è occupato se non di uomini donne e bambini: dei loro rapporti con sé stessi e gli altri, della loro esperienza (anche pensare e sognare sono esperienza) compresi i lati più oscuri e all’apparenza incomprensibili di essa. La psicoanalisi, che è più cose in una, fonda la propria forza terapeutica e di critica allo status quo della cultura su nient’altro che sul pensiero e sulla relazione tra due persone pensanti e parlanti. Non sono ammessi surrogati: musica, meditazione, occupazione, arte o rapporto con gli animali, appunto. Aspetti che conservano tutta la loro importanza e arricchiscono la vita concreta del soggetto, ma non sono psicoanalisi.
Ciò detto, Freud ricevette come regalo apprezzato una cagnolina Chow Chow, quando aveva 74 anni, nel 1930, da Marie Bonaparte, sua paziente, organizzatrice e fondatrice della società psicoanalitica francese e deus ex machina dell’emigrazione di Freud a Londra, nel 1938. Freud chiamò la cagnolina Jofi, che in ebraico significa “bene, va bene”. La scelta del nome non è fortuita, ma richiama il motivo inconscio della simpatia per il cane (il mondo animale e la natura). Così Freud scrive in una sua lettera a Marie Bonaparte del 1936: “Le ragioni per cui si può in effetti voler bene con tanta singolare intensità a un animale come Jofi, sono la simpatia aliena da qualsiasi ambivalenza, il senso di una vita semplice e libera dai conflitti difficilmente sopportabili con la civiltà, la bellezza di un’esistenza in sé compiuta”. Le parole chiave del brano, i tag per intenderci, sono: simpatia, ambivalenza, conflitto, civiltà.
L’analisi è presto fatta, basta cogliere il senso, la direzione delle libere associazioni: una vita non scissa, senza ambivalenza, senza conflitto interiore-esteriore. Senza guerra, ma anche senza lavoro, senza progresso step by step, senza competizione, senza vittoria (e sconfitta) senza gloria (o disperazione), in balia della sola forza invisibile e impersonale dell’evoluzione. Una vita semplice, lineare, senza complessi(tà) di sorta. Qui Freud torna sul punto nodale delle civiltà evolute: il disagio al quale esse espongono il soggetto, assieme agli innegabili benefici. Qual è dunque il nocciolo di un tale entusiasmo, di una tale comunissima sublimazione della vita del cane? Di cosa si tratta: di un sogno a occhi aperti? Di una pia illusione? Di un desiderio inconfessabile? Di un’allucinazione? Ora che fa?! Chiederebbe, seduta stante, l’analista al paziente che gli confidasse una simile fantasia: “invidia il suo cane?”.
La battuta non è futile perché la psicoanalisi di invidia se ne intende, avendo arricchito la comprensione morale di uno dei sette vizi capitali: l’invidia, aggiungendo “l’invidia del pene”, ma non, ad esempio l’invidia del cane (dell’animale, della natura). Al di là delle molteplici interpretazioni, su cui oggi sorvoliamo, con la locuzione “invidia del pene” Freud mette sul tavolo una scottante problematica relazionale e sociale, a partire dalla differenza sessuale, una continua tensione tra chi ha e chi ha non ha, tra chi è o si avverte mancante o teme di scoprirsi tale alla prima difficoltà e chi ostenta turgida la propria stucchevole pienezza. Sul tavolo dell’osservazione Freud mette la differenza, la complessità delle cose, la necessità di lavoro, di elaborazione, di articolazione, di compromesso, di continuo aggiustamento. Ecco il vero punto scomodo che la sublimazione della vita del cane (dell’animale, della natura) vorrebbe censurare.
Che si tratti di una fantasia invidiosa lo conferma autorevolmente anche Leopardi, che nei celeberrimi versi del Canto notturno fa esclamare a se stesso, nelle vesti dell’errante pastore: “O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sia! Quanta invidia ti porto!”. Leopardi si inserisce in una profonda tradizione che rimbalza da Spinoza (Dio, ma anche l’io, sive Natura) a Giordano Bruno (che risuscita il mito di Atteone, sbranato dai suoi cani e in tal modo riportato allo stato di natura), giù giù fino a Diogene: “Scodinzolo festosamente verso chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non mi dà niente, mordo i ribaldi”.
Anche Freud ritorna sulla sublimazione che unisce i filosofi alla gente comune sempre nella lettera a Marie Bonaparte, dove leggiamo: “I cani amano i loro amici e mordono i loro nemici, proprio al contrario degli esseri umani, che sono incapaci di amore puro (interessante definizione di amore puro, nda) e devono mescolare amore e odio nelle loro relazioni oggettuali”. Solo che, a differenza degli illustri nomi elencati, Freud ha chiaro che la via dell’illusorio rientro nella natura semplicemente non esiste, che al pari del religioso “sentimento oceanico” è una via mistica (illusoria) per il ricongiungimento all’uno, o al tutto (sono la stessa cosa), attraverso l’abdicazione definitiva al lavoro di civiltà che nessuna natura farà al posto di un io in rapporto con altri io: di una soggettività in rapporto con altre soggettività.
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