Un recente rapporto parla di un allarmante numero di dimissioni volontarie dagli ospedali pubblici in Italia. Il documento di un importante sindacato di medici ospedalieri, l’ANAAO, riporta che gli abbandoni da parte di medici che cercano altre strade fuori dal pubblico si sono raddoppiati in dieci anni: si è passati dal 1,6% di dimessi nel 2009 al 2,9% nel 2019, aumentando dell’ 81% (3123 medici nel 2109). Le ragioni della fuga sono così riassunte nel documento dell’ANAAO: taglio di personale, turni disagevoli soprattutto per le donne, lavoro burocratico, svilimento dell’autonomia decisionale del medico.
Ma non è tutto: altre cause sono –riportiamo dal documento – l’assenza di coinvolgimento decisionale, la perdita di prestigio e di valore della professione, il rischio di denunce e di aggressioni, le ambizioni di carriera rese sempre meno avverabili per i tagli dei posti dirigenziali. Insomma, un’ecatombe che si vede subito non essere dovuta a problemi di stipendi e di orari, ma che rivela un cuore più profondo del problema.
Già, perché il vulnus risale a tanti decenni fa, quando gli ospedali iniziarono ad essere trasformati in aziende. Si voleva evitare giustamente gli sprechi, ma qualcosa sfuggì, perché nel concetto di azienda è implicito il concetto di impiegato, cioè di chi compie ripetitivamente un lavoro (cosa che nemmeno i veri impiegati dovrebbero essere portati a fare). E a ruota seguì un cataclisma dove i medici diventarono “fornitori di servizi”, i pazienti diventarono “clienti” e il rapporto fra loro divenne un contratto, stipulato con tanto di firma, e supposta assicurazione di successo, altrimenti si va alla formula “soddisfatti o rimborsati”, dimenticando che nessuno al mondo garantisce a nessuno la guarigione, la scomparsa dei mali: ci si può e ci si deve impegnare al massimo, ma il successo terapeutico trova ostacoli e fallimenti anche per i medici più cocciuti e più bravi.
E’ la medicina della sfiducia: della sfiducia verso il medico da cui si pretende in una sorta di consumismo sanitario, verso il paziente cui si fanno firmare pagine fitte di moduli di cosiddetto consenso informato (spesso così complesse da essere incomprensibili) e verso se stessi, se proliferano decine di protocolli anche su cose ovvie per esempio su come evitare le cadute accidentali in ospedale.
E la medicina basata sui contratti ha una conseguenza: invita a non fare una virgola in più di quanto sancito nel contratto stesso. Ma la professione di medico che è nata per alleviare il dolore e per essere strumento di guarigione, può diventare un lavoro quasi impiegatizio? Alla fine se basta aprire un file del computer e scaricare gli esami da far fare routinariamente per una certa patologia, o la serie di farmaci da dare, dove finisce l’arte, l’empatia, la capacità di seguire ogni paziente come fosse unico? E soprattutto, finisce per calare l’attenzione, dato che, in una sorta di effetto SUV, può accadere che prescrivere (tutto a menadito secondo protocollo) avvenga a scapito del visitare, parlare, sfiorare il paziente.
L’effetto SUV è proprio l’avere a disposizione tante e tali risorse strumentistiche, laboratoristiche, terapeutiche, diagnostiche, che ci si sente al sicuro per il fatto stesso di averle e usarle, come in un SUV ci si sente al sicuro per la carrozzeria corazzata; peccato che nei SUV se ci si lascia rassicurare dalla potenza della carrozzeria cali l’attenzione nella guida perché ci si sente al sicuro, e pare che si abbia un tasso di incidenti maggiori che con altre vetture. Nota bene: i protocolli servono ma devono essere un sussidio, e non un sostituto della mente.
E pensare che invece la parola “medico” viene proprio da un verbo latino che significa “misurare” e che ha la stessa origine del verbo meditare; l’eccesso di esami e test e farmaci disponibili oggi invece sembra portare ad un automatismo che porta alla routine; e come dice il sociologo USA Barry Schwartz, alla mediocrità.
Già qualche anno fa, sul British Medical Journal comparvero articoli dal titolo “Perché i medici non sono felici?” e chiosavano: “le cause sono molte, alcune delle quali profonde”. Ci stupisce allora l’allontanamento dei medici dagli ospedali? Non tanto. Perché tanti partono col desiderio di curare, cioè di “prendersi cura” e finiscono col sentire un crescente distacco tra questo ideale e quello che gli tocca fare ogni giorno; forse perché vedono il merito scarsamente premiato e la volontà di fare poco incentivata. E la meritocrazia, talora pare non essere di casa, come riportava il sito quotidianosanita.it del 15 maggio 2019 o addirittura “meritocrazia al contrario ” (Il Giornale 5 giugno 2013). Casi rari, chissà, secondo alcuni non tanto; ma quel che è certo è che occorre ridare senso a chi lavora in ospedale e non solo con migliori stipendi. Si tratta di iniziare col garantire ospedali migliori, anche nell’immagine di accoglienza che offrono, e di offrire una motivazione che, a sentire questa indagine dell’ANAAO, in molti sembrano aver persa.
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