L’Italia è un Paese poco attraente per chi dispone di professionalità elevate. Non è in grado di attirare i talenti formatisi all’estero, né di trattenere chi si è formato in Italia. Nel solo 2018, secondo l’Istat, sono emigrati dall’Italia 29 mila laureati: una quota altissima, se consideriamo che nel 2018 hanno conseguito la laurea triennale 178 mila persone. La compensazione tramite l’arrivo di immigrati laureati è stata minima. Se guardiamo al saldo fra immigrati ed emigrati, l’Italia ha perso, nel periodo 2013-2018, 100 mila laureati, mentre, nello stesso periodo, il Regno Unito ha attratto 400 mila laureati in più rispetto a coloro che sono emigrati e la Germania addirittura 500 mila. Il raffronto è impietoso se consideriamo che la disponibilità di capitale umano è forse la principale determinante della crescita economica, e il brain drain a cui siamo soggetti rischia di compromettere il livello di benessere del nostro Paese nel medio e lungo termine.
L’opinione pubblica pare piuttosto sensibile al problema. Secondo una recente indagine dell’European Council on Foreign Relations, più del 60% degli italiani considera l’emigrazione un problema. Tuttavia, alla domanda su che cosa i cittadini reputino necessario fare per modificare questa tendenza, la risposta è preoccupante e per certi versi sorprendente: più del 50% degli italiani intervistati sarebbe favorevole a impedire ai cittadini di lasciare il Paese per lunghi periodi di tempo.
Al netto del fatto che i sondaggi vanno sempre interpretati cum grano salis, la soluzione proposta dalla maggioranza segnala la propensione di molti cittadini per soluzioni fortemente illiberali, che fra l’altro sono purtroppo già sperimentate da diversi regimi totalitari, in particolare dai regimi comunisti. Il sondaggio è stato condotto in diversi Paesi europei, e ciò ci permette la comparazione delle risposte nei diversi Stati. Emerge che l’opinione degli italiani è condivisa da più della metà dei cittadini spagnoli e greci, mentre i cittadini di altre nazioni, ad esempio di Francia, Germania, Olanda, Svezia, Danimarca e Finlandia, la pensano molto diversamente: in questi Stati (peraltro molto più attrattivi di noi e meno colpiti dal fenomeno del brain drain), meno di un quarto della popolazione ritiene che la proibizione dell’emigrazione sia una misura desiderabile.
La strada alternativa, liberale oltre che più efficace, è quella di porsi l’obiettivo di creare le condizioni affinché il nostro Paese diventi un territorio che attira chi dispone di competenze e professionalità elevate. Serve in particolare attrarre imprenditori e imprese, in particolare nei settori ad alta tecnologia, che impiegano personale altamente qualificato, in grado di generare elevato valore aggiunto. Per raggiungere questo obiettivo, il Paese deve offrire un buon equilibrio fra un elevato livello di qualità della vita, una tassazione vantaggiosa, e un sistema Paese – istruzione, normative, servizi erogati dalla Pubblica amministrazione – efficiente.
Sulla qualità della vita, che è l’aspetto più difficile da modificare mediante l’azione di governo, l’Italia è ben messa. Sono la tassazione e l’efficienza che, invece, ci penalizzano fortemente e su cui occorre agire da subito. La lista delle cose da fare è lunga, ma ampiamente nota. Particolarmente urgenti, fra gli altri, risultano misure di revisione della spesa pubblica con la diminuzione degli sprechi, di riduzione della burocrazia e di semplificazione degli adempimenti per gli imprenditori, di stimolo agli investimenti infrastrutturali e digitali, di miglioramento nell’amministrazione della giustizia, di mantenimento delle agevolazioni fiscali previste per chi rientra, e di estensione delle stesse per un congruo numero di anni per coloro che sono rientrati negli anni passati, al fine di trattenerli e di rafforzare l’idea di un investimento del sistema Paese per il presente e futuro.
Che cosa dunque ostacola l’adozione di queste misure? Principalmente, due motivi. Primo, la loro complessità tecnica. Per concepire queste misure, è necessaria una grande competenza, nonché la volontà e la capacità di sviluppare un sistema di monitoraggio e di valutazione continui, al fine di ricalibrarle qualora si evidenzino delle criticità.
Secondo, vincoli di natura politica. In molti casi, infatti, si tratta di provvedimenti che non consentono a chi li patrocina di acquisire consenso politico, visto che i benefici che da esse scaturiscono sono visibili solo nel lungo periodo, quando verosimilmente il Governo non sarà più lo stesso. Il problema dello scarso consenso politico è particolarmente acuto se l’opinione pubblica non percepisce l’urgenza – o peggio, neanche la necessità – di tali misure, magari proprio perché ritiene che basti proibire l’emigrazione per risolvere il problema del brain drain. Forse, quindi, non stupisce che siano proprio quei Paesi in cui è più alta la percentuale di cittadini che ritiene di risolvere il problema del brain drain con la proibizione dell’emigrazione, quelli nei quali esso si manifesta in modo così netto e preoccupante.