Caro direttore,
il Sole24Ore di domenica 19 marzo ha dedicato le prime due pagine all’emigrazione dei giovani laureati italiani all’estero. Un tema che puntualmente torna in evidenza nel dibattito pubblico. Gli articoli riportati nel quotidiano sono molto interessanti e aiutano, anche grazie al supporto dei recenti rapporti Istat e AlmaLaurea, ad avere una visione aggiornata del fenomeno. A chi interessato, ne suggerisco una lettura completa.
In breve, ogni anno il 5-8% dei giovani laureati italiani (fascia 25-34 anni) si trasferisce per lavorare all’estero. Si stima che negli ultimi dieci anni il numero di giovani che sono andati via dall’Italia sia vicino ai 2 milioni. Considerando che la spesa media da sostenere per formare un giovane da quando nasce a quando termina l’intero ciclo di studi è di circa 300mila euro, la perdita secca degli esodi dell’ultimo decennio si avvicina ai 600 miliardi di euro. Il talento che l’Italia non riesce a riportare a casa genera un costo annuo stimato intorno all’1% del Pil.
Impressiona la differenza con altri Paesi circa la mobilità studentesca. In Italia, l’ultima rilevazione indica un flusso di giovani studenti in uscita (outbound) pari al 4,2% e in entrata (inbound) al 2,9%. Negli Usa sono 0,6% e 5,1%; nel Regno Unito 1,5% e 20,1%; in Germania 3,8% e 11,2%; in Francia 4% e 9,2%; in Spagna 2,2% e 3,8%; in Portogallo 6% e 11,6%. Tra questi Paesi siamo l’unico in cui il flusso outbound supera quello inbound.
Emerge anche una forte eterogeneità all’interno dell’Italia stessa. Mentre il Nord riesce a compensare l’emigrazione di talenti, soprattutto con il flusso di giovani dal Sud, il Mezzogiorno non è in grado di invertire il bilancio negativo di perdita di capitale umano qualificato. Il divario Nord-Sud in termine di talenti continua dunque ad acuirsi.
Il fenomeno è rilevante e i dati ne mostrano la complessità. Inoltre, rientrando in quel 5-8% di giovani laureati che hanno lasciato l’Italia, mi sento particolarmente chiamato in causa. Ogni volta che leggo qualcosa a riguardo, mi sento interpellato come parte attiva del fenomeno. E ogni volta, dopo un iniziale senso di colpa, inevitabile per la drammaticità con cui spesso viene presentato il tema, ripenso a un dialogo avuto con un amico pochi giorni prima di lasciare l’Italia per iniziare un dottorato di ricerca all’estero.
Dissi a questo amico: “Io parto perché vedo una possibilità di crescita per me, professionale e umana. Allo stesso tempo, però, mi spiace lasciare l’Italia, perché davvero vorrei contribuire al bene di questo Paese”. Rispose: “Tu andando all’estero per iniziare questo percorso stai facendo il bene di questo Paese”. Mi sorprese questa risposta, indice di una concezione originale e in controtendenza a quella comune per cui un laureato che parte è solo una perdita di valore e un costo per l’Italia. Vi assicuro che le sue parole avevano un tono tutt’altro che cinico: era davvero convinto che la mia esperienza all’estero avrebbe portato dei frutti di cui anche l’Italia avrebbe potuto beneficiare.
Sono passati quasi cinque anni da quel dialogo, e l’originalità di questo giudizio mi ha sempre accompagnato e aiutato a guardare il fenomeno della “fuga dei cervelli” con una prospettiva diversa. L’esodo di tanti giovani qualificati è senza dubbio causa di fattori che indeboliscono il valore economico dell’Italia. Ma è davvero solo questo? L’esperienza di questi cinque anni all’estero, in cui ho incontrato tanti italiani, anche in settori lavorativi diversi dal mio, suggerisce di no. Mi ha mostrato che, oltre a causare fattori a impatto economico negativo, la presenza di giovani italiani all’estero può davvero generarne molti altri a impatto economico positivo.
Proprio perché qualificata, la maggioranza di questi giovani è stimata e valorizzata nel posto di lavoro. Il loro valore aggiunto, possibile grazie alla formazione di qualità ricevuta, accresce la stima non solo dei diretti interessati, ma anche quella dell’Italia intera e del suo sistema di formazione. Questa stima facilita la costruzione di collaborazioni e partenariati da cui il nostro Paese trae un guadagno economico.
Un primo esempio riguarda la ricerca accademica, il mio settore lavorativo. Le collaborazioni internazionali sono fonte di valore scientifico ed economico per le università, all’estero come in Italia. La presenza nelle università estere di giovani italiani nel pieno della loro attività di ricerca aiuta enormemente anche quelle italiane a creare network internazionali e a guadagnare dunque valore.
Un altro esempio: un amico assunto da una società italiana ha espresso il desiderio di fare un’esperienza all’estero e la sua azienda ha deciso di “prestarlo” a un’altra straniera. Il Pil prodotto da questo giovane non sarà considerato come prodotto in Italia, ma se l’azienda italiana lo ha assecondato è perché giudica questa sua esperienza all’estero una sorgente di valore anche per se stessa. O ancora, un giovane amico medico (la partenza all’estero di molti medici è proprio l’oggetto di uno degli articoli del quotidiano citato) che, collaborando con un primario di un ospedale italiano e uno straniero, permette ai medici e pazienti di entrambi gli ospedali di beneficiare della sua ricerca. Per non parlare dei tanti giovani stranieri che decidono di visitare l’Italia perché incuriositi dai racconti di giovani colleghi italiani, dando così impulso al settore del turismo, uno dei maggiori della nostra economia. Non credo sia un caso che negli ultimi anni il numero di turisti stranieri in Italia sia aumentato.
Potrei fare altri esempi, e altri giovani italiani all’estero potrebbero aggiungerne di nuovi. Questo non per sminuire gli aspetti problematici della questione, che rimangono assolutamente rilevanti, ma per suggerire che la visione dell’emigrazione dei talenti unicamente come dannosa per l’Italia mi sembra parziale. Dopo cinque anni posso dire che la risposta di quell’amico, che inizialmente mi suonava strana, è vera. I tanti giovani che iniziano un percorso di lavoro all’estero non rappresentano solo una perdita per il nostro Paese, ma anche un guadagno. Mi domando dunque se i dati che puntualmente sono riportati, oltre ad evidenziare i costi di questa emigrazione, ne considerino anche i benefici. Se no, credo sia interessante iniziare a farlo, per conoscere anche il lato positivo di questo fenomeno e averne dunque una visione più completa.
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