Per chi non lo avesse visto neanche a Sanremo, parliamo ora di Filippo Uttinacci, romano, 26 anni compiuti lo scorso 12 settembre, già vincitore della Targa Tenco come miglior opera prima con il suo album La vita veramente. In arte, Fulminacci. Proprio in questi giorni è uscito il suo terzo lavoro, Infinito + 1, anticipato da alcuni singoli usciti in precedenza e prodotto insieme a okgiorgio, musicista e produttore bergamasco, grossomodo coetaneo dell’artista e già produttore, fra gli altri, dei Pinguini tattici nucleari e di Loredana Bertè. E proprio i Pinguini sono ospiti nel brano Puoi, nato grazie alla frequentazione comune dello stesso produttore. Un altro ospite è presente invece nella traccia 6 Occhi grigi (una volta si sarebbe detto “che apre il lato B dell’album”), il cantautore Giovanni Truppi. Entrambi i brani sono scritti a quattro mani, mescolando i linguaggi degli artisti ospiti con quello del titolare del lavoro. Diversi aspetti dei Pinguini pentatonici emergono dal primo brano, mentre al cantautore di origine partenopea fanno pensare l’andatura decisamente laid-down, e i richiami e le ripetizioni testuali del secondo. In entrambe le canzoni, come ha sottolineato lo stesso Fulminacci in una intervista, sono gli artisti ospiti a cantare per primi, segno del voler partire dalle loro radici per poi incontrarsi. Significativo e non banale.
Ma quale è la cifra stilistica di Fulminacci? Precisamente non lo sa anche lui (come ha dichiarato sempre nella stessa intervista, quella per Rolling Stone), oppure non lo vuole sapere, preferendo continuare a spaziare fra diversi generi e linguaggi musicali e testuali. E questa – vorrei metterlo subito in evidenza – a me pare una grande qualità del lavoro di questo artista, fin dai primi brani pubblicati nel gennaio 2019: una grande varietà musicale, unita alla ricchezza degli arrangiamenti e alla verità del suono; si pensi per esempio che il brano di apertura, Spacca, è stato realizzato convocando i musicisti in studio e registrandolo insieme, come usa dire, in presa diretta. Questo brano appartiene al primo versante stilistico dell’artista, che potremmo chiamare ‘funky cazzaro’, e che annovera fra le altre Miss mondo Africa contenuta nell’album precedente, appartenente grossomodo allo stesso sottoinsieme. Si sente l’amore per certa musica, più battuta nel passato che ora, il Rhythm’n’blues, il funky per l’appunto, e sicuramente anche il repertorio di Lucio Battisti che gli stessi territori esplorava qualche anno fa.
In qualche modo legata allo stesso ambito è anche Filippo Leroy, che già mescola alla ricetta anche altri elementi musicali, quali il folk e una incisiva cassa in quattro nel ritornello. Piccola parentesi: in entrambe queste canzoni è presente un’altra caratteristica, forse la più peculiare nelle canzoni di Fulminacci, e cioè un uso molto singolare dei background vocals, insomma dei coretti! Oltre ad essere un elemento di abbellimento musicale, il coro dialoga con il musicista, alleggerendo quanto appena cantato ed impedendo alla narrazione di prendersi troppo sul serio. Proprio in Filippo Leroy il tema è importante, verità e ipocrisia, successo, identità e fama, originale e copia, tanto che il dilemma del ritornello è se io sarò “Lello Da Vinci o Filippo Leroy”, vale a dire il geniale artista o l’attore che lo ha interpretato in uno sceneggiato televisivo. Ma è proprio il coro che dissacra e sdrammatizza, e al nome “Filippo Leroy” risponde “Ma chi è questo qua?”. O qualche verso prima (in corsivo e fra parentesi le risposte ironiche del coro): “Potrei dipingere un ritratto che muove lo sguardo / O farmi crescere la barba così divento finalmente saggio / E sulla vita che vivo scrivo un romanzo (Oddio che noia) / Manca poco e ti giuro mi fanno santo (Quindi alleluia)”. Trovata estremamente riuscita, a mio modo di vedere, dentro testi comunque profondi ed al tempo stesso un po’ disillusi rispetto alla vita e al mondo, ma che vedono nelle relazioni fra le persone l’unica, vera e possibile risposta. Come recita il titolo di un’altra intervista, stavolta a Cosmopolitan, «Mentre il mondo cade, ci resta solo l’amore».
E grazie a questa frase svalichiamo ed andiamo verso la seconda “scarpa” della poetica dell’artista, quella più sentimental-cantautorale-classica. Ma nel muoverci in questa direzione, non dimentichiamo che nel repertorio di Fulminacci trovano spazio anche brani più squisitamente pop, come la già citata e pinguiniana Puoi, ma anche Ragù, che tratta proprio della figura del cantautore e la cui melodia richiama un po’ alla mente la precedente Canguro, come pure presente è un punto di riferimento già riconosciuto e cioè Daniele Silvestri. Scusate il gioco di parole, ma fulminante la velocità di pensiero (e di scrittura) nella frase della prima strofa (e del finale): “Devo scrivere una hit che non è una hit / Di quelle che ti vergogni mentre le canti / Che non piacciono a nessuno / Ma le sanno tutti quanti.” Visione anti-pop in un brano pop, geniale.
Arriviamo dunque all’altro versante – lo ricordo, quello più profondo, cantautorale e sentimentale – nel quale resta ancora insuperata, tratta però dal precedente album, Le biciclette: andatevela ad ascoltare, adesso o quando volete, ma fatelo, ne vale la pena, nella versione pianoforte e voce, potremmo dire così come è nata, o nell’arrangiamento completo, con echi ed ambientazioni à la Bon Iver. Ma sto ancora divagando, torniamo al presente e in questo album, a Simile, delicata ballata ed erede naturale proprio delle biciclette. Canzone classica ed al tempo stesso modernissima, perché i sentimenti, i desideri, quelli sono e tornano in tutte le generazioni. Bellissima, nel ritornello, l’esaltazione della diversità come luogo più profondo di incontro: “Che siamo pieni di pensieri strani / E che non siamo uguali e che non lo saremo mai / Questa è la cosa più simile a tutti che hai”.
Le altre ascoltatele voi, non fate fare tutto il lavoro a me e godetevi la metrica spostata e diagonale della collaborazione Truppi-Fulminacci in Occhi grigi, il pop agguerrito e sentimentale di Baciami baciami (“e vaffanculo a chi non dice ti amo” merita la citazione), la disillusione di Tutto inutile condita in salsa Kill Bill-Pump it-Black Eyed Peas, e le chitarre acustiche verso la bossanova di Così e cosà, piena di domande sull’esistenza ed il futuro (“Di questi tempi di carta e di fumo / Chissà che cosa sarà”, bruciante l’inizio, è una dichiarazione di intenti).
Sì, queste qua sopra ascoltatele ed approfonditele voi, ma lasciatemi dire due parole sull’ultima, La siepe. Ancora due chitarre acustiche, una con il capotasto e una senza; un po’ di rumore d’ambiente, strada, voci e uccellini, e le situazioni e le domande che riguardano la vita di tutti, l’esigenza di un rapporto bello e vero e l’insicurezza di non riuscire a trovarlo: “E non importa se non sei vera / Tanto vero alla fine cos’è? / Sei dentro o fuori di me?”.
Oltre ad invitarvi a seguire questo artista, magari anche dal vivo (vedi calendario 2024 qui) , credo che la maniera migliore di chiudere questo mio invito all’ascolto sia sentire come – sempre dall’intervista a Rolling Stone – Filippo stesso descrive se stesso e il suo lavoro. “Sì, tendo a girare intorno alle cose perché faticano a trovare una definizione. Ci sono delle cose che voglio dire quando le ho chiare in testa. Ma se non le ho chiare ci giro intorno per proporre non una sentenza ma una proposta di conversazione. Però sì, in questo disco c’è proprio la tendenza ad arrivare all’osso delle cose. Per il mio percorso personale lo considero un passo in avanti”. E allora buon ascolto!
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