Quando muore qualcuno, indipendentemente dalla sua età o dalle circostanze che hanno portato a quella morte, quello che si nota subito è se ci sono persone che piangono davvero, se ci sono persone che – per quella morte – provano dolore. Guardando la folla che ha circondato la bara di Giulia Cecchettin nella chiesa di santa Giustina a Padova, era evidente che la morte di Giulia è diventata un dolore per tanti. Ma perché è successa una cosa del genere? Come può un fatto singolo, che è nulla rispetto alle centinaia di morti che ogni giorno feriscono l’Ucraina o la Palestina – e le altre decine di zone della terra segnate da conflitti –, essere diventato così imponente per molti?
Qualcuno, giustamente, sottolineerà che grande ruolo in tutto questo hanno giocato i media, ma anche i più incalliti dovranno ammettere che nessuna televisione o giornale è in grado di produrre il contraccolpo umano, il silenzio e la solidarietà profonda che ha caratterizzato quel funerale.
Non è stato il discorso pubblico sul femminicidio a radunare così tanta gente, non è stata l’enfasi morbosa dei siti di informazione a calamitare così tante persone. Attorno ai grandi casi di cronaca i curiosi – è chiaro – ci sono sempre stati, ma quel che ha fatto la differenza a Padova non è stata solo una questione di curiosità, bensì un’ultima consapevolezza incancellabile, che nessuna propaganda è riuscita a estirpare, ossia che in questa storia – in questo delitto – ci sia un male che ci riguarda tutti.
Come sono sembrati lontani, durante lo svolgersi del rito, i rancori dei giorni scorsi, le parole avvelenate, i giudizi sommari. Per un attimo, per un istante, quello che è stato chiaro è che nella vita al male si risponde sempre, innanzitutto, con il dolore. C’era dolore nelle parole della sorella Elena, pronunciate nel congedo privato che la famiglia ha voluto si tenesse in un secondo momento nella parrocchia d’origine della famiglia, c’era dolore nelle parole del papà Gino, che con compostezza e umanità ha accompagnato al cimitero la figlia pochi mesi dopo aver accompagnato la moglie. E c’era dolore anche nel più silente dei Cecchettin, il giovane Davide, attonito e impotente dinnanzi alla bara della sorella.
Viviamo un tempo strano in cui si pensa che il male si possa cancellare con la tecnica, si possa abolire con la legge, si possa anestetizzare con le rivendicazioni: i Cecchettin, che sono una famiglia cattolica e che da cattolici stanno vivendo tutta questa tempesta, mostrano a tutti che il risentimento dei primi giorni non basta, che le parole infuocate della sorella nella prime ore del delitto non sono sufficienti, che “bruciare tutto” non riporta indietro nessuno. Il male, in fondo lo sappiamo tutti, ha bisogno di dolore, di un pianto in cui tutti ci possiamo riconoscere. Nel male che fa la morte, nel male che fa il peccato, nel male che fa il femminicidio; ma anche nel male che fa la guerra, che fanno i litigi di ogni giorno, i tradimenti, i pettegolezzi sprezzanti, bisogna anzitutto concedersi di provare dolore, di sentire dolore, di abitare il dolore.
È solo così che è possibile sperimentare l’inaudito, ossia che quel dolore non è soltanto l’eco di una morte, ma l’anticamera di una nuova vita, di qualcosa che ricomincia. Lo ha detto il vescovo di Padova parlando di una “nuova pace fra uomo e donna”, lo ha detto il papà Gino parlando di un rinnovato impegno perché l’educazione non sia un tema di secondo piano nelle agende dei politici, ma diventi una priorità per il Paese, lo ha detto la sorella Elena immaginandosi Giulia con la mamma in cielo a contendersi con complicità una pallina di gelato.
In quel funerale pieno di dolore è sembrato che, ad un certo punto, il sentimento composto dell’addio lasciasse spazio a qualcos’altro, a qualcosa di indicibile. Lo ha sussurrato papà Gino: forse io “non so pregare, ma so sperare”. E la speranza di cui quest’uomo parlava non coincide con la speranza che la morte di Giulia possa arginare tutto il male del mondo, che quel delitto possa essere l’ultimo della storia umana. Nel dolore – infatti – non sorgono mai soluzioni, ma intuizioni. Ed è difficile ammettere l’intuizione profonda che quella morte ha portato al cuore di molti; l’unico che l’ha detta – per un istante – è stato il Vescovo al termine dell’omelia, quando ha parlato di pace per il cuore del carnefice.
Sembra impossibile parlare di questo, con un processo ancora da fare, con altri particolari ancora da scoprire, con tanto orrore ancora da attraversare, ma l’unica speranza, l’unica intuizione in quel mare di dolore, è che possa esistere un perdono.
È come se tutti sapessero, in fondo, che l’orrore scatenato da un cuore cattivo – cattivo nel senso latino del termine: prigioniero del male – termina solo quando quel cuore si libera, quando quel cuore incontra un amore, incontra un Bene più grande. Così, ha senso dire che passeranno gli anni, molti anni, e che certamente ci dovrà essere una giusta pena. Ma che tutto questo male, tutto questo orrore, potrà finire solo con l’amore. È paradossale, ma il saluto a Giulia, che è iniziato a Padova, potrà compiersi soltanto in una cella di Verona: è lì che si gioca la vera partita. La partita del pentimento sincero, del ravvedimento operoso, di una libertà e di una coscienza ferita per sempre. Tutto il male che comincia, ed è questo il punto, non può finire mai sulla ghigliottina. Ma solo tra le braccia spalancate del Nazareno sulla croce.
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