Un cavo di traino che cede e una cabina della funivia che collega Stresa a Mottarone, sul versante piemontese del lago Maggiore, che precipita per una quindicina di metri e si schianta sul pendio, provocando 14 morti e un bambino di 5 anni in gravi condizioni ma stabile.
È il bilancio della tragedia che ha squarciato l’Italia nella penultima domenica di maggio e che ha avuto eco sui media di tutto il mondo. Immediate le condoglianze e il cordoglio di tutto il mondo politico, delle istituzioni, del campionato di serie A che osserva un minuto di silenzio. Difficile questa volta rintracciare responsabilità immediate, in quanto la funivia era stata riaperta nel 2016 dopo due anni di manutenzione costata più di 4 milioni di euro e l’impresa incaricata del compito era una ditta sudtirolese di Vipiteno la cui serietà è giudicata da molti fuori discussione. Il ministro dei Trasporti ha comunque annunciato una commissione di inchiesta, nella certezza che qualcuno un po’ più responsabile degli altri anche questa volta si possa trovare.
Del resto noi umani siamo così: abbiamo bisogno di dare un nome alle nostre colpe, ai nostri dolori, abbiamo bisogno di dare un orizzonte narrabile alle nostre tragedie per renderle sopportabili. Il punto, però, è che nessuno dei turisti che domenica mattina ha preso la funivia che lo avrebbe portato all’appuntamento col proprio destino – nessuno di loro – immaginava che al pomeriggio sarebbe stato ricordato sui campi da calcio o in un comunicato della Presidenza del Consiglio. Le persone che sono morte su quella cabina, in prevalenza giovani, fanno parte dei milioni di donne e uomini che, dopo questo lungo inverno, desideravano soltanto un po’ di libertà, un po’ di sole e di bellezza, per tornare a vivere.
E forse ci siamo un po’ tutti illusi, come spesso capita quando si soffre o quando si comincia qualcosa, che bastasse quel desiderio per garantirci una sorta di immunità, che bastasse essere vaccinati per essere al sicuro dai pericoli dell’esistenza, che bastasse aver voglia di lasciarsi tutto alle spalle per non dover più fare i conti con le domande della vita.
Ma non è così: la pandemia ha chiesto a tutti un lavoro su se stessi e sui motivi per cui vale la pena vivere, perché la realtà chiede a tutti quel lavoro. E chi in questi mesi si è barricato dietro le più curiose ricostruzioni di quanto è accaduto, sperando che fosse sufficiente aspettare perché le questioni squadernate da questo anno e mezzo di Covid potessero essere superate o dimenticate, adesso si trova davanti a quanto la realtà sia testarda, a quanto non basti “riaprire” per mettere tutto a posto.
Il tutto, se vogliamo, è amplificato dal fatto che su quella funivia c’erano persone nate in Israele e un ragazzo nato in Iran, un uomo anziano e un bambino di due anni, una giovane coppia di fidanzatini e una donna che festeggiava il suo quarantesimo compleanno: non c’è una circostanza, o una situazione dell’esistenza, che ci possa evitare di fare i conti con la vita, non c’è un fatto tolto il quale la vita finalmente funzioni, in modo da potercene fregare di interrogarci circa il significato dell’essere nel mondo, del morire, dell’amare, del lavorare, del credere o del gioire.
A volte preghiamo, chiedendo di poter aggirare ciò che ci si palesa innanzi nel cammino, a volte fuggiamo, pensando che esista un posto dove sfuggire alla nostra umanità, a volte lasciamo stare, illudendoci che, continuando a non considerare le cose, le cose smettano di considerare noi.
Eppure questo nostro cuore di carne attende senza sosta di essere considerato, guardato, amato, perdonato. Abbracciato. Lo sanno bene tutti coloro che piangono o che attendono. Lo saprà fin troppo bene quel bimbo che lotta contro la morte in ospedale in queste ore e che – d’improvviso e per sempre – è rimasto orfano.
Il Mistero non si può sfuggire. E chi crede di poterlo fare, ad un certo punto s’arresta. O sorpreso da un moto di consapevolezza oppure riacciuffato per i capelli da un fatto della vita. Possiamo forse diventare più ricchi, possiamo perfino far approvare dallo Stato tutte le leggi che ci piacciono, ma c’è un punto nella luce della sera che non smette di chiedere pace. È l’enigma che siamo, l’infinito che non conosciamo, la felicità che speriamo e che diventa ogni istante più urgente, anche nell’istante in cui si stacca quel sottile cavo a cui tutti – in fondo – siamo appesi.
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