Era il dicembre del 2007 e per Fiat si chiudeva un anno record: oltre 2.200.000 auto vendute nel mondo. La casa di Torino era tornata competitiva e, come scritto nella relazione che accompagnava il rendiconto di fine anno, tutti gli obiettivi fissati “sono stati raggiunti e in molti casi superati”. Nella stessa annata record, la Sec (Società di controllo della Borsa americana) il 14 marzo aveva annunciato un’inchiesta nei confronti della New Century Financial, una delle società finanziarie che hanno generosamente erogato credito per l’acquisto di case negli Usa. La Borsa di New York sospendeva il titolo e il Dow Jones chiudeva in rosso: molti iniziavano così ad accorgersi che la New Century Financial non era un caso isolato. Con questi segnali era iniziata la grande crisi finanziaria destinata a diventare crisi economica, ma anche industriale; e a stravolgere molti piani, compresi quelli della Fiat e di Sergio Marchionne.



L’entusiasmo a Torino, che a fine anno era alle stelle, induceva previsioni completamente sbagliate per il ciclo economico alle porte. Nella medesima relazione, diffusa il 25 gennaio del 2008, si leggeva infatti che “le attuali turbolenze dei mercati finanziari avranno ricadute limitate e, nel caso peggiore, saranno circoscritte agli Stati Uniti”. La sensazione che la crisi potesse estendersi su scala globale, intanto, era piuttosto diffusa. Ma, proseguiva la nota, “il Gruppo ritiene tale scenario poco probabile”.



Fino a settembre 2008 le attività commerciali di Fiat erano andate bene: il fatturato era cresciuto dell’8,4%. Ma, con l’incedere dell’autunno, arrivavano anche terribili conferme: la crisi non era solo finanziaria. La situazione era molto più complessa: la recessione sarebbe presto arrivata in Europa come crisi di fiducia e, conseguentemente, di consumi.

Negli ultimi tre mesi dell’anno, il fatturato di Fiat precipitava del 19%. A dicembre era ufficiale: l’intero settore dell’auto era in crisi. E lo era anche Fiat. Al tradizionale incontro prenatalizio con i dirigenti del Gruppo, Sergio Marchionne affermava: “Il 2009 sarà l’anno più difficile della mia vita, sono state spazzate via le condizioni di base sulle quali avevamo definito i nostri progetti. Vanno rivisti tutti i piani perché assisteremo a forti scosse e a nuove fasi di consolidamento”.



Mentre la Svezia destinava 2,5 miliardi a Saab e Volvo, la Francia alzava gli incentivi alla rottamazione e investiva 6 miliardi nelle attività di ricerca di Renault e Peugeot su auto a basso impatto ambientale, la Germania finanziava le società che fanno credito agli acquirenti di automobili, l’Italia ricorreva a sole politiche di protezione sociale.

Una cosa al manager italo-canadese era chiara: bisognava agire su due fronti, quello interno dell’organizzazione del lavoro e quello esterno delle nuove alleanze. Sempre nel dicembre del 2008 in un’intervista concessa al settimanale “Automotive News”, Marchionne dichiarava: “In futuro rimarranno solo cinque-sei costruttori; per far fronte alla crisi è necessario allearsi”.

L’alleanza con Chrysler del 2009 poi diventata fusione nel 2014 aveva origine in quel momento. Pochi mesi dopo il Presidente Usa Barack Obama affidava a Marchionne la guida di Chrysler, al suo terzo default della storia. Marchionne in pochissimo tempo fu capace di risanare e di riportare all’utile la casa di Detroit, e dal 2011 in grado di restituire al Tesoro americano i 7,6 miliardi di dollari di aiuti pubblici, con sei anni di anticipo. Il 1° gennaio 2014 Fiat e Chrysler annunciavano la loro fusione: era il capolavoro di Lucky Sergio che, negli anni, ha convinto anche i suoi più strenui ma onesti oppositori.

Marchionne aveva compiuto la sua missione storica: quella di proiettare il Lingotto nel mercato globale, cosa che mai gli Agnelli sono riusciti a fare nella loro storia. Da qui il suo strettissimo rapporto con John Elkann che aveva visto realizzato il suo sogno e che, nel momento della sua scomparsa (luglio 2018), ha avuto parole fraterne per il manager italo-canadese. Dopo la nascita di FCA, Marchionne ed Elkann non hanno smesso di lavorare per restare tra i cinque-sei produttori d’auto del nuovo corso globale. GM, Volkswagen, Ford, Kia, Geely, Suzuki, Hyundai: si è provato da Est a Ovest per trovare il giusto partner fino ad arrivare a Renault – con cui l’alleanza è mancata di un soffio – e ora a Peugeot.

La fusione FCA-PSA, i cui dettagli sono ampiamente noti, è un’operazione win-win per un nascente colosso dell’auto da quasi 9 milioni di veicoli. Certo c’è qualche incognita per il futuro, ma le variabili più grandi sono figlie del ciclo dell’economia che ai giorni nostri è sempre più complesso e difficile. Quindi è sbagliato interpretare l’alleanza in chiave anti-italiana come qualche commentatore si è affrettato a fare. Inutile nascondere che vi sono e vi saranno delle criticità: l’inevitabile processo di razionalizzazione delle capacità produttive in Europa potrebbe avere qualche ripercussione sugli stabilimenti italiani. Non si può non considerare tuttavia che non solo il ciclo dell’economia ma la stessa transizione dell’industria dell’auto al green new deal sono fattori che avrebbero inciso allo stesso modo. Anzi, proprio in ragione degli investimenti importanti che PSA ha fatto in tal senso, FCA ne risulta rafforzata. Un compito importante, inoltre, lo giocheranno i governi: auguriamoci che anche quello italiano faccia la sua parte visto che, da quasi due anni, il dicastero dello Sviluppo economico è fermo persino sulle crisi aziendali.

Il futuro era quindi scritto. E si è compiuto solo con un anno di ritardo: il Destino ha scelto di fermare Sergio Marchionne, non la sua automobile.

Twitter: @sabella_thinkin