Per comprendere, almeno in parte, l’attuale situazione in Niger bisogna fare un passo indietro e tornare al 2010 quando a governare era il presidente Mamadou Tandja. Nonostante il suo mandato fosse ormai scaduto, il leader africano non intendeva cedere il potere. Proprio per questo il leader organizzò delle manifestazioni popolari – apparentemente spontanee – in cui si sosteneva apertamente la necessità della continuità del suo potere politico.
Queste manifestazioni tuttavia non servirono a impedire che la corte costituzionale decretasse che il presidente stava agendo illegalmente e che doveva cedere il potere. Anche l’assemblea nazionale contrastò il rinnovo del suo mandato e contrastò anche i suoi piani per indire un referendum che avrebbe realizzato una nuova costituzione senza limiti di mandato. Ma Tandja sciolse anche l’assemblea nazionale e nel 2009 riportò una schiacciante vittoria.
Ovvie furono le condanne internazionali, a cominciare dall’Ecowas (Economic Community of West African States). La Francia, per bocca del suo ministero degli Esteri e cioè Bernard Kouchner, dichiarò che era necessario rispettare l’ordine costituzionale. Ma quale era la vera ragione dell’opposizione francese?
Per lungo tempo la Francia aveva un monopolio esclusivo sulla materia prima più ambita del Niger e cioè sull’uranio. Le centrali nucleari francesi ricavano dallo sfruttamento dell’uranio i tre quarti dell’elettricità nazionale e la multinazionale Areva – principale gruppo di energia atomica statale francese – trae quasi un terzo del suo uranio proprio del Niger mentre il resto lo ricavava dal Canada e dal Kazakistan. Areva è una delle più grandi società specializzate in energia atomica e il suo fatturato annuale equivale al doppio del Pil del Niger.
Tandja era riuscito a infrangere il monopolio della multinazionale francese alleandosi con la Cina e per questo siglò un accordo con la multinazionale cinese Sino-U (China Nuclear International Uranium Corporation). Questa multinazionale pagò bene 56 milioni di dollari per avere la licenza di estrarre uranio in Niger, ma accanto all’uranio anche il petrolio era una materia prima fondamentale sia per il Niger che per la Cina. Proprio per questo il leader africano siglò un accordo anche con la China National Petroleum Corporation.
Grazie a questa collaborazione la Cina aveva costruito un ponte sul fiume Niger e una diga idroelettrica per sfruttarne la potenza; inoltre le compagnie statali cinesi avevano varato un progetto da 5 miliardi di dollari per estrarre il primo greggio nigeriano dal blocco petrolifero di Agadem costruendo la prima raffineria del paese.
Ritornando alla Francia, fu certamente De Gaulle a partire dal 1958 ad offrire un accordo con i leader africani: protezione da parte delle forze armate francesi in cambio della salvaguardia degli interessi economici di Parigi. Il ruolo che il generale De Gaulle ebbe sui sistemi autocratici francesi fu tale che quando morì, nel 1970, uno dei più noti e sanguinari autocrati africani e cioè Bokassa – padrone della Repubblica Centrafricana – singhiozzò al funerale di un uomo che chiamava “papà”. Questo sistema fu continuato dai gollisti dopo la morte di De Gaulle e si concretizzò in una rete di contratti legati a materie prime, fondi neri e corruzione.
Insomma l’Africa divenne un vero e proprio bancomat della Francia. Infatti, proprio alla fine degli anni 90, in Gabon si scoprì la presenza di un vero e proprio potere parallelo esercitato dalla multinazionale francese Elf. Essa usava i proventi ricavati dal petrolio per pagare tangenti ai politici francesi, comprare appartamenti di lusso a Parigi e pagare l’autocrate del Gabon e cioè Omar Bongo. Grazie alle inchieste del magistrato parigino Eva Joly si scoprì che questa multinazionale aveva creato un vero e proprio Stato ombra. La Elf fu privatizzata e decine di dipendenti dell’azienda finirono in manette. A seguito di questa indagine sarebbe nata la Total.
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