La conversione di Silvia Romano all’Islam (il suo nuovo nome, come ha detto lei stessa dopo la liberazione dalla prigionia in Somalia da quasi due anni, è Aisha) ha scatenato in Italia un dibattito sul quale purtroppo fin da subito la presunzione di aver già capito tutto – tanto a destra quanto a sinistra – ha dominato la scena mediatica: Domenico Quirico e il filosofo Umberto Galimberti invece su La Stampa, come del resto anche Mauro Leonardi sul Sussidiario e alcuni altri, si sono concentrati sulla dimensione difficilissima e “delicata” della scelta che dentro il cuore di ognuno può arrivare di fronte sia alla conversione e sia soprattutto ad un sequestro come quello che Silvia Romano ha dovuto subire. Se però il giornalista e inviato di guerra Quirico ha provato a concentrarsi sul lato “umano” scosso dalla violenza di un sequestro jihadista, Galimberti ha provato a tracciare un percorso paradossalmente più religioso pur essendo lui un pensatore agnostico.



E la sua conclusione in qualche modo “stupisce” perché nei fatti ammette quasi che abbia fatto bene Silvia Romano a convertirsi all’Islam, stante la mancanza di senso religioso che ormai – secondo lui – permea l’intero Occidente. «Forse Silvia si è convertita, forse per necessità, forse per sopravvivenza nel tempo della prigionia, forse per intima convinzione. Non credo per la “Sindrome di Stoccolma”», scrive Galimberti che premette dunque di non volersi occupare sul fatto se sia giusta o sbagliata la sua conversione, «Una dimensione così personale, così propria, così difficile da comunicare, perché quando si ha a che fare con sensi e significati che oltrepassano la nostra esperienza condivisa, ogni discorso, nel momento in cui si offre alla chiacchiera comune, rischia il fraintendimento».



GALIMBERTI E IL SENSO RELIGIOSO PERDUTO DELL’OCCIDENTE

Secondo Galimberti bisogna invece occuparsi del tema conversione non tanto per la dimensione personale di Silvia Romano, ma per quello che potrebbe “insegnare” l’intera vicenda: «Per trarre spunto da questo episodio per capire che cos’è per davvero una dimensione religiosa, al di là di quanti vi aderiscono per tradizione, per un bisogno di consolazione o peggio per un bisogno di appartenenza. Religioso è quell’atteggiamento che caratterizza chi non accatta che ogni senso e ogni significato si esaurisca nella realtà esistente in cui quotidianamente viviamo». Secondo l’analisi del filosofo, già la scelta di andare in Africa a fare volontariato verrebbe da una “insoddisfazione” per la propria esistenza (anche se solo questo tema potremmo stare a discuterne per ore con diverse testimonianze di tanti volontari che partono non perché “oppressi” ma perché bisognosi di comunicare e donare la propria fede ad una causa diversa dalla realtà europea): «Dio non è l’unico destinatario della dimensione religiosa, così come non lo è un generico amore del prossimo», sostiene Galimberti, riflettendo su cosa possa essere successo in quei terribili mesi di prigionia con in mano solo un Corano.



«Silvia può aver letto il Corano e, meditando qualche passo di quel Libro, può aver concluso che la religiosità, come è vissuta in Occidente, ha perso, per molti, ogni contatto con il mondo della trascendenza, con quell’ulteriorità di senso che caratterizza ogni vera dimensione religiosa. E partendo da lì può aver accolto quel Allah akbar quel “Dio è il più grande”, non per fare stragi, ma per riconoscere che c’è una dimensione più grande del nostro Io, dei nostri progetti, dei nostri sogni, delle nostre ambizioni»; per questo, concludendo il suo ragionamento, l’insegnamento della storia di Silvia potrebbe essere riferita non tanto all’Islam in quanto tale (anche se resta la domanda al contrario, se tutto questo fosse successo con un sequestro di una setta fondamentalista cristiana e lei fosse tornata suora, come sarebbe stata trattata la vicenda?) ma al tema della religiosità «sarebbe un grande insegnamento anche per noi. Non per convertirci all’Islam, ma per non esaurire nei progetti del nostro Io ogni senso della nostra esistenza, che è comunque sempre alla ricerca di un’ulteriorità di significato, rispetto a quello predisposto dall’ipertrofia del nostro Io. E questo con o senza Dio», conclude Umberto Galimberti.