L’amministrazione Biden invita a Washington Benny Gantz, esponente del governo israeliano da sempre vicino agli americani, facendo infuriare Netanyahu, ma segnando un distacco dal premier di Israele. Forse un segnale che, stanchi delle ripercussioni negative dell’andamento della guerra di Gaza sulla campagna elettorale per le presidenziali USA, i democratici hanno deciso di fare un pressing più convincente sugli alleati per arrivare a una tregua abbastanza lunga da aprire una fase risolutiva del conflitto.



Di certo nell’esecutivo israeliano si allarga la frattura fra il ministro della Difesa Gallant e uno dei capi della destra, Ben Gvir. Mentre il leader dell’opposizione Yair Lapid dice addirittura che il governo Netanyahu è “il sogno dei nemici della nazione”.

Biden, spiega Sherif El Sebaie, opinionista egiziano esperto di diplomazia culturale e geopolitica del Medio Oriente, non vuole arrivare al voto con il conflitto ancora aperto, rischierebbe troppo, ma le pressioni per far cambiare idea agli israeliani non possono essere alla luce del sole per non compromettere l’immagine dell’alleanza USA-Israele. Intanto i palestinesi a Mosca pensano di riunire tutte le fazioni sotto l’OLP, una ritrovata unità che potrebbe dare più forza alle loro rivendicazioni in una trattativa.



Gli USA invitano Gantz e non Netanyahu, un segnale che la misura con l’attuale premier è colma?

Nonostante la solidarietà con Israele, concretizzata con un supporto militare quasi senza confini, gli USA dietro le quinte manifestano una grande agitazione: il modo in cui Tel Aviv sta mettendo in pericolo la propria reputazione presso l’opinione pubblica rischia di trascinare con sé anche gli Stati Uniti. Gli americani vorrebbero che la guerra a Gaza si concludesse al più presto: è in corso una campagna elettorale dove Biden rischia di perdere anche in virtù del fatto che le comunità arabo-musulmane negli USA, attraverso esponenti autorevoli anche dal punto di vista mediatico, abbiano palesato l’intenzione di non sostenerlo se il suo atteggiamento con Israele rimarrà quello attuale. Credo che sia nell’interesse dell’amministrazione, e in generale degli USA, prendere il più possibile le distanze da Netanyahu.



Può essere il segnale che gli americani abbiano cominciato a fare pressioni serie su Netanyahu, non limitandosi alle parole come hanno fatto finora?

Se stiano facendo pressioni vere e proprie non lo possiamo vedere: l’asse USA-Israele deve reggere davanti al nemico comune, costituito soprattutto dall’Iran e dalle sue propaggini come Hezbollah e Houthi. Se vengono esercitate pressioni non sono visibili, non sono recepite dall’opinione pubblica pro-palestinese o musulmana come vere e proprie pressioni.

Non crede che invitare Gantz in questo modo sia una presa di distanza molto più forte rispetto a prima nei confronti di Netanyahu?

Su una cosa siamo tutti d’accordo: in teoria Netanyahu sarebbe già politicamente morto. Era già inviso a una parte degli israeliani, in seguito a tensioni politiche molto forti, prima del 7 ottobre, con quello che è successo quel giorno, le conseguenze della guerra in corso e i processi che lo attendono potremmo dire che è finito. Gli USA devono cercare e accreditare un’alternativa.

Cambio di governo e stato di guerra sono conciliabili?

Lo stato di guerra sarebbe in contraddizione con lo svolgimento delle elezioni, ma penso che l’amministrazione americana, con la campagna per le presidenziali 2024 in corso, stia prendendo in considerazione tutte le ipotesi. Alla fine, tuttavia, Israele è un Paese che ha la sua sovranità e che risponde agli input americani solo in base a ciò che gli conviene.

Il ministro della Difesa Yoav Gallant (Likud) è ai ferri corti con i partiti di destra. L’ultima tensione riguarda gli haredi, ebrei ultraortodossi per i quali Gallant vorrebbe che finisse l’esenzione dalla leva militare. Ben Gvir ha detto che Netanyahu dovrebbe dargli l’out out: “Sei con noi o ti dimetti”. C’è una frattura nell’esecutivo?

Come in ogni governo, soprattutto se ci sono forze che portano istanze diverse fra di loro, ognuno tira l’acqua al suo mulino. Il fatto che sia durato tutto questo tempo, però, non deve farci sottovalutare la loro capacità di mantenerlo in vita fino alla fine.

Gli USA sembrano volere la tregua più di Israele, che non si è presentata alla ripresa dei negoziati. Il solito tira e molla: un giorno ottimisti e l’altro no?

Anche solo raggiungere una tregua sarebbe un buon risultato. Certo, se si parla di quattro o cinque giorni con uno scambio limitato di ostaggi non si risolve niente, perché poi la campagna militare riprenderà magari più forte di prima. La tregua dovrebbe essere a lungo termine, chiudere possibilmente questa fase storica e chissà, magari mettere le basi per una soluzione definitiva della questione palestinese.

Gli americani vogliono un cessate il fuoco di almeno sei settimane. Un’ipotesi che può essere accettata?

Stiamo parlando ancora di elezioni, perché quelle contano per l’amministrazione Biden: la volontà è di arrivare a una soluzione prima del voto. Se si arriva alle urne con il conflitto in corso possono stare certi di avere perso i voti di molti americani di origine arabo-musulmana.

Sei settimane potrebbero essere un primo passo per arrivare a un cessate il fuoco definitivo?

Sicuramente. Il problema è che se l’obiettivo degli israeliani rimane sradicare Hamas, più si allunga la tregua più l’organizzazione palestinese può rimettersi in sesto. Se l’obiettivo è riprendere la guerra, sei settimane potrebbero essere una soluzione poco digeribile per i vertici militari. Accettare una pausa così lunga autorizzerebbe un po’ di ottimismo, ma non c’è nessuna garanzia.

Netanyahu, però, è contrario sia al cessate il fuoco definitivo, sia ad avallare il percorso che porta allo Stato palestinese. Fino a che c’è lui è difficile sperare in questo?

Infatti vedo molto difficile la soluzione dei due Stati. Se non lo hanno fatto in questi anni, dopo il 7 ottobre sarà ancora più difficile. Questo governo è arrivato al potere con un’agenda molto chiara, che ha applicato soprattutto in Cisgiordania. Hamas, d’altra parte, ha detto che l’attacco di cinque mesi fa era stato ideato per rimettere, purtroppo nel peggiore dei modi, la questione palestinese al centro.

Le fazioni palestinesi (Hamas, Fatah, Jihad e altre ancora) si sono incontrate a Mosca e hanno annunciato che partirà un dialogo per portare tutte le sigle sotto l’OLP. È possibile che ritrovino l’unità?

Il fatto che finora i palestinesi si siano divisi è una delle ragioni per cui si è indebolita la loro posizione, tanto che i piani di pace e di costituzione di uno Stato palestinese erano stati accantonati praticamente da tutte le cancellerie mondiali, permettendo a Israele di rafforzare la colonizzazione dei territori occupati. Un governo unitario sarebbe un buon passo in avanti. È difficile ma può darsi che dietro la mediazione dei russi, che hanno scoperto un vecchio ruolo che avevano in Medio Oriente, nasca un governo unitario. Che riesca a raggiungere un accordo con Israele è un altro paio di maniche.

Se si verificasse tutto questo, Hamas dovrebbe cambiare pelle e diventare solo un movimento politico?

Hamas, dopo questa campagna pesantissima da parte di Israele, faticherà a riprendersi dal punto di vista militare. Se non vogliono scomparire dalla scena e perdere il credito che hanno guadagnato in una larga parte dell’opinione pubblica del Medio Oriente e anche nella Striscia di Gaza, dove in questo momento prevale un desiderio di rivalsa, dovranno acconsentire a entrare in un governo nazionale, per poi addossare eventuali scelte impopolari ad altre fazioni. Da un punto di vista machiavellico, per loro sarà la soluzione migliore. Hamas sarà indebolita militarmente, ma con un capitale politico che dovrà usare e investire.

(Paolo Rossetti)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI