Prezzi dell’energia alle stelle, bollette di luce e gas impazzite e fuori controllo: secondo Confindustria i costi energetici delle imprese italiane sono passati dagli 8 miliardi del 2019 ai 21 del 2021, ma quest’anno si rischia addirittuta un balzo a quota 37 miliardi. A pagare lo scotto maggiore sono le imprese dei settori energivori – dall’acciaio alle fonderie, dalle cartiere ai produttori di vetro – che lanciano un accorato grido d’allarme: di questo passo molte attività chiuderanno e molti lavoratori dovranno essere messi in cassa integrazione.



Un grido che non può rimanere inascoltato, perché questi comparti giocano un ruolo di primissimo piano nel tessuto industriale italiano: generano 88 miliardi l’anno di valore aggiunto, destinano all’export il 55% circa del loro fatturato e sostengono 350mila posti di lavoro diretti, il doppio se si considera anche l’indotto. Non solo: attorno a loro ruota tutta l’economia circolare, che rischia così di impantanarsi del tutto. Come fare per evitare questo Armageddon? “Due sono le richieste urgenti – afferma Massimo Medugno, direttore generale di Assocarta, settore che conta 119 imprese della carta e del cartone, 153 siti produttivi e 19mila addetti con 7 miliardi di fatturato –.



La prima, trovare un modo per utilizzare le riserve strategiche nazionali di gas per affrontare questa emergenza. La seconda: lavorare a livello europeo affinché il mercato possa aumentare la liquidità, perché del gas a prezzi convenienti consente alle imprese di reinvestire per il miglioramento energetico e per raggiungere il traguardo della decarbonizzazione”.

La fiammata dei costi energetici che impatto sta avendo sulla vostra attività?

Un forte impatto sui costi produttivi, e già da tempo. Il prezzo del gas è aumentato del 600% e per il nostro settore è la materia prima principale che incide per il 30% sui costi complessivi. Fino a un anno fa il gas costava 20 euro al Megawattora, ieri è arrivato a 90 euro. Un incremento assurdo ed è facile intuire quanti gravi problemi ci procuri, tenendo conto che da sempre l’Italia è un paese caro dal punto di vista energetico: abbiamo sempre pagato l’energia di più degli altri paesi europei.



Le imprese cartarie hanno ripreso l’attività a gennaio oppure si sono registrati molti fermi?

In questo momento, dopo la pausa natalizia, le aziende stanno riavviando l’attività. Probabilmente qualcuno ha fatto una pausa più prolungata per cercare di capire dove va il mercato energetico. E alcune aziende, per esempio nel comparto delle carte grafiche, già in contrazione, non stanno ripristinando tutte le linee produttive, determinando qualche difficoltà di approvvigionamento ai nostri clienti.

Nell’imballaggio invece?

Qui c’è più capacità e registriamo maggiori richieste: il packaging è sempre più necessario per movimentare e proteggere i prodotti, specie dopo l’entrata in vigore da ieri del divieto alla vendita della plastica monouso. Il mercato tira, è buono, è favorevole, gli ordini non mancano, ma con le bollette così alte c’è chi è costretto a rallentare la produzione, perché non ha margini, non ha redditività, magari è già in perdita.

È vero che molte imprese preferiscono chiudere più che continuare con l’attività?

Non abbiamo notizie di chiusure generalizzate, diciamo che la situazione è a macchia di leopardo. L’attesa, l’auspicio è che qualche forma di intervento possa arrivare.

Se rallenta o si ferma questo settore che danni subisce l’economia italiana in termini di valore aggiunto del Pil, export e occupazione?

L’impatto sarebbe molto forte. L’Italia è il terzo produttore cartario in Europa dopo Germania e Svezia. Il settore della carta vale circa 7 miliardi, ma la filiera, dalle cartiere fino ai produttori di imballaggio e agli stampatori, crea un fatturato di 22 miliardi di euro, l’1,4% del Pil. La carta si usa per mille cose. Non solo: pur essendo un settore di commodity, questa filiera esporta circa il 45% della produzione ed è la filiera che ha l’onere e la responsabilità di veicolare nel mondo il Made in Italy. I nostri prodotti vengono inscatolati qui, vengono movimentati, accompagnati e protetti proprio grazie ai nostri imballaggi.

Ne risentirebbe anche la nostra economia circolare?

Certo. Gli imballaggi per l’88% vengono riciclati e quindi, se il sistema rallenta, viene meno il ritiro della materia prima che per noi è essenziale. Già con la pandemia abbiamo avuto un calo della raccolta differenziata e ne abbiamo subito risentito, visto che i prezzi dei materiali sono aumentati. Poi sono tornati a scendere, ma ora sono risaliti a causa anche di una forte richiesta a livello internazionale, perché tutti i paesi hanno ripreso a marciare.

C’è il rischio che questi rincari siano trasferiti a valle, sui clienti finali?

Le aziende vorrebbero scaricarli totalmente, questi rincari abnormi. Ma lo fanno solo in parte e meno di quanto necessario per tenere i loro conti in ordine.

Perché?

Perché altrimenti assisteremmo a un balzo incredibile dell’inflazione. Non è facile scaricare a valle questi aumenti, anche perché i prezzi dell’energia, pur soggetti a brusche oscillazioni, sono legati a contratti di fornitura semestrali, se non annuali. Diventa complicato stare a trattare con i clienti tutti i giorni…

Le difficoltà continueranno anche nel 2022?

Difficile fare previsioni. Del resto, basta che a livello geopolitico accada un evento traumatico e il costo del gas può passare di colpo da 70 a 90 euro. Temiamo però che questa situazione andrà avanti ancora per un po’ di tempo e forse migliorerà quando sarà passato l’inverno. Ovviamente l’auspicio è che non continui così, altrimenti i problemi si aggraverebbero ancora di più e servirebbero già oggi interventi strutturali.

Parliamo allora di possibili contromisure. Il premier Draghi ha intenzione di chiedere a chi ha macinato profitti dalle vendite di gas di condividere questi guadagni extra. Che ne pensa?

Il market price lo fa il gas e quindi queste aziende, che spesso sono anche grandi campioni nazionali, hanno margini extra. L’idea del premier è giusta e può segnare una direzione. Anche perché non si può dimenticare un aspetto.

Quale?

Consumatori e aziende pagano ogni anno 10-11 miliardi di oneri in bolletta per finanziare le fonti rinnovabili, che così oggi godono di un doppio dividendo. E quindi potrebbe essere l’occasione per cambiare i criteri per determinare il market price: facciamo in modo che non sia il gas, ma le fonti rinnovabili. Potrebbe essere una misura da inserire nel ddl Concorrenza, incardinato al Senato, perché potrebbe anche aiutare a calmierare la speculazione.

Altre decisioni rapide ed efficaci quali potrebbero essere?

Due misure. Dal punto di vista del gas naturale, visto che il momento che stiamo attraversando è molto delicato e che l’Italia ha delle riserve strategiche molto importanti, andrebbe utilizzata una procedura straordinaria di gas release per la cessione anticipata alle imprese gasivore di gas a un prezzo competitivo, “estivo”, che poi sarà restituito più avanti. Ci aiuterebbe anche ad avvicinarci all’obiettivo, indicato dallo stesso governo, di riattivare le capacità nazionali. E avere il gas nell’Adriatico significa non portarsi dietro i rischi geopolitici legati al trasporto dal Kazakistan o dall’Ucraina, con evidenti vantaggi sulla diversificazione degli approvvigionamenti. Chiaro che riattivare le capacità nazionali richiede un po’ di tempo.

La seconda soluzione?

Coinvolge l’Europa, che giustamente si preoccupa con il pacchetto Fit for 55 di procedere in maniera pressante sulla decarbonizzazione, ma se non fa politiche energetiche rischia di fare politiche zoppe. Per raggiungere certi obiettivi bisogna avere un mercato dell’energia integrato, sbloccando per esempio Nord stream 2. E la stessa Italia potrebbe utilizzare di più il Tap o i gasdotti dell’Algeria. La creazione di questi mercati del gas più integrati servirà un domani a far circolare il biogas e il biometano, di cui anche l’Italia è tra i maggiori produttori europei.

E sul meccanismo degli Ets, il sistema di scambio Ue di quote di emissione della CO2?

È un meccanismo che provoca in noi grande frustrazione, perché negli ultimi anni sono entrati in questo mercato operatori non industriali, ma finanziari, più attenti alle dinamiche speculative che agli investimenti per la decarbonizzazione. Sarebbe il caso di sterilizzare questi ingressi. E poi quei soldi non vengono utilizzati per il miglioramento energetico del settore, ma spesso – come avvenuto con il decreto bollette – per alleggerire i costi delle famiglie. Giusto aiutare i consumatori, ma quei quattrini per espressa indicazione delle direttive Ue per il 50-70% dovrebbe essere ristornate alle aziende.

(Marco Biscella)

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