Nei giorni scorsi in Italia si è registrata la prima fabbrica vittima del caro gas; è una fabbrica di fertilizzanti in Emilia Romagna che è stata costretta a mettere in cassa integrazione decine di persone. La chiusura è un primo campanello di allarme perché l’industria dei fertilizzanti è direttamente e velocemente dipendente dal caro della materia prima; le altre imprese, solo per il rincaro dell’elettricità, verranno impattate nei prossimi mesi se i prezzi del gas non tornano indietro rapidamente. Oggi, in Europa, viaggiano ancora a circa sei volte i prezzi di un anno fa. Mentre questo accade i Governi italiano ed europeo si oppongono a qualsiasi sviluppo sugli idrocarburi nonostante sia fisicamente impossibile, sempre ammesso che funzionino, che le rinnovabili possano controbilanciare nei prossimi cinque o dieci anni gli idrocarburi.
Stiamo assistendo al suicidio dell’economia europea e prima di pensare che sia un’esagerazione soffermiamoci su alcuni punti.
Il primo è che contrariamente alla narrazione di una classe politica imbarazzata a dare spiegazioni il prezzo del gas e dell’energia elettrica non è lo stesso ovunque. Ci sono regioni globali con prezzi del gas molto inferiori, visto che il trasporto è costoso, e altri sistemi che possono contare su energia molto più economica o perché basata sul nucleare o perché basata su efficienti fonti fossili. Questo significa che l’industria europea è fuori competizione. Non ha più senso produrre in Europa perché i costi energetici rendono le produzioni fuori mercato e in alcuni casi i profitti sono ammazzati dalla tassa sulla CO2.
L’Europa pensa di poter avviare al problema introducendo dal 2026 una tassa sulle importazioni da Paesi che non sono virtuosi dal punto di vista ambientale. È una follia per due ragioni. La prima è che in sede di WTO questa tassa verrebbe percepita come un dazio all’importazioni. La seconda è che solo un burocrate abituato ai tempi della burocrazia può pensare che questi cinque anni di attesa non producano già danni enormi nel sistema produttivo. Mentre i burocrati studiano un sistema perfetto per imporre dazi irrealizzabili sulle importazioni, l’industria europea si troverebbe fuorigioco fino al 2026. In cinque anni a queste condizioni le imprese falliscono due volte non una. Certo l’Europa potrebbe stampare e coprire con salvataggi statali, ma a quel punto avremmo inflazione e proteste dai partner commerciali.
Il terzo punto è che l’Europa si troverebbe senza alcuni prodotti in determinati settori. Abbiamo già visto Paesi impedire le spedizioni di alcuni beni verso l’Europa perché altrimenti il mercato locale rimarrebbe senza. I prezzi che paga l’Europa determinerebbero una scarsità nel Paese di produzione perché tutti gli imprenditori, al posto che vendere sul mercato interno, venderebbero in Europa. I politici di quei Paesi dovrebbero quindi spiegare ai propri elettori perché non si trova più legname piuttosto che cemento. Per evitare l’imbarazzo semplicemente impediscono le esportazioni. Potrebbero forse pensare di aumentare la capacità per servire anche l’Europa. Ci vorrebbero anni e comunque poi arriverebbe il dazio sulla CO2. Su questo ultimo punto, di nuovo, solo un burocrate può pensare che un sistema locale, in un Paese in via di sviluppo, di calcolo delle emissioni possa essere affidabile e “onesto” come quello europeo.
L’unico modo che ha l’Europa di evitare tutto questo è correre immediatamente ai ripari assicurandosi idrocarburi a prezzi decenti e nel frattempo lavorare per il lungo periodo sul nucleare, dimenticandosi i folli obiettivi verdi. Se questo non avviene oltre a dover imporre austerity energetica rischia di veder morire il proprio sistema industriale in un contesto geopolitico particolare. Nonostante i proclami attuali l’Europa rimane una costruzione fragile politicamente ed economicamente. Lo vediamo dagli “spread” sui debiti sovrani e lo vediamo dalle diversità di veduta su politica estera e non solo. La crisi economica non fa bene a nessuno, ma ancora meno all’Europa.
Ci chiediamo se la transizione energetica europea, che è il quadro che governa la spesa europea e il rilancio post-Covid con cui si imbrigliano Stati e imprese, sia il canto del cigno dell’unione e di un continente che pensa di stare su Marte. La crisi indotta da un piano perseguito contro la realtà, tecnologica e non solo, e ogni buon senso rischia di scatenare una crisi e un declino dalle conseguenze imponderabili.
Chi è per l’Europa può solo essere contro questa pazzia. Non parliamo di quello che accadrà tra dieci anni, ma di quello che succederà nei prossimi sei mesi quando il caro bollette si manifesterà a tutti: famiglie e imprese.
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