Le ricorrenze storiche hanno il loro peso. Anche in economia. Specie quando si parla di petrolio, ancor oggi un indicatore chiave negli equilibri tra le varie aree del pianeta. Non è perciò per un semplice capriccio che Roger Diwan, analista tra i più esperti in materia di energia, ci ricorda che l’Opec+ ha deciso di dar corso al più importante taglio della produzione di petrolio proprio alla vigilia dello Yom Kippur.



Nel 1973, la sera prima della festa ebraica, gli eserciti di Egitto, Siria e Giordania lanciarono l’offensiva contro Israele che, per almeno 48 ore, rischiò il disastro poi scongiurato da un brillante blitz, ma l’esito politico della guerra fu senz’altro favorevole ai produttori di petrolio: dopo la pace, il cartello dei Paesi petroliferi riuscì a imporre nuove condizioni assai più favorevoli rispetto ai consumatori. Prese così il via lo “shock oil” accompagnato dalle domeniche dell’austerità. E si aprì per l’Occidente la stagione dell’inflazione, proseguita per un decennio abbondante fino a sfociare nella deflazione.



Difficile che vada così questa volta. Non è il caso di esagerare l’impatto del taglio della produzione (due milioni di barili al giorno). In realtà, visti i problemi produttivi di molti membri del club, la riduzione effettiva non supererà i 950 mila barili al giorno. E la condizione precaria dell’economia di molti Stati clienti permette di nutrire dubbi sull’efficacia della stretta. Altre volte in passato (1997, 2008 e 2020) il cartello si è trovato costretto a riaprire i rubinetti del greggio per evitare il collasso dei compratori, una prospettiva drammatica per i signori del greggio.



Eppure la svolta di Vienna promette di avere un sapore storico, perché segnala, una volta per tutte, i nuovi equilibri geostrategici del pianeta. Non è solo questione di petrolio o del “tradimento” di Mohammed bin Salman che ha deciso di dare una mano a Putin (a lui senz’altro più “simpatico” e congeniale del Presidente Biden) contro gli occidentali schierati al fianco dell’Ucraina. No, stavolta la scelta di campo va al di là degli effetti politici immediati.

Come si è già visto in occasione del voto all’Onu dopo l’invasione russa, una fetta rilevante del pianeta non fa il tifo per l’Occidente. Nella maggior parte dei casi questo non coincide con l’appoggio a Vladimir Putin, da cui prendono le distanze pure India e Cina, oltre a una parte dei Paesi africani. Ma, al di là dello stesso conflitto, stanno ormai prendendo forma nuovi equilibri planetari.

È il caso della saldatura di interessi tra la potenza cinese e la Russia. Nel giro di pochi mesi gli equilibri si sono ribaltati, al punto che Mosca figura ormai come un grande magazzino di commodities minerarie e alimentari al servizio di Pechino chiamata dopo il prossimo Congresso ad assumere una leadership più piena: non più solo fabbrica del mondo, con i costi ambientali connessi, ma anche potenza protagonista nel gioco delle valute e dei mercati, oltre che delle tecnologie. Accanto al nuovo blocco orientale ruotano altre realtà ansiose di emergere. L’Arabia Saudita non è più uno scatolone di sabbia arricchito da pompe di benzina. E nemmeno il leader regionale di una Penisola che vanta le più importanti e redditizie compagnie aeree del pianeta, nonché presenze in costante crescita nel turismo (Dubai) o nelle comunicazioni (Al Jazeera, fiore all’occhiello del Qatar). Presto si vedranno i frutti dei giganteschi investimenti promossi dal Regno, deciso ad assicurarsi il futuro post-petrolio.

Un cerchio più largo include l’Iran, soffocato dalla dittatura degli ayatollah ma con una popolazione giovane. Poco più in là figurano India, Pakistan e Turchia, Paesi che perseguono linee di azione politica indipendenti e hanno rapporti strategici stretti anche con l’Occidente, ma che risentono in misura crescente della forza di attrazione economica del blocco russo-cinese. L’integrazione economica e commerciale del blocco asiatico comincia ad allargarsi all’aspetto valutario.

Qui non bisogna fare l’errore di pensare a un rapido declino del ruolo dominante del dollaro negli scambi internazionali. Il dollaro resterà dominante ancora a lungo, ma Pechino (vedi accordi sul petrolio) cerca di emanciparsi dall’egemonia Usa e riduce progressivamente gli investimenti nei titoli del Tesoro Usa.

Intanto, come nota il Wall Street Journal, la Casa Bianca stenta a trovare contromisure alle scelte saudite pro-Putin. “È difficile – scrive il giornale conservatore – conciliare in una volta sola l’appoggio all’Europa ricattata sull’energia, il contenimento dei prezzi della benzina in Usa e avviare una politica ambientale con la rinuncia all’energia fossile”. Ma al di là del tema cruciale, quello dell’energia, la partita riguarda la leadership culturale e politica del pianeta. La democrazia rappresentativa, che sembrava aver trionfato nel 1989, arretra. E cala, in particolare, l’appeal del modello anglosassone, da Trump alla Brexit fino alle figure imbarazzanti di lady Truss.

In questo quadro l’Europa ha il compito più difficile, svantaggiata com’è sul fronte dell’energia, Non solo per il ricatto di Mosca, ma anche per l’obiettivo handicap verso gli Usa. Nei prossimi mesi molte aziende, specie tedesche, potrebbero scegliere di spostarsi negli Stati Uniti, che offrono un’energia molto più a buon mercato rispetto a quella europea e soprattutto un’energia più sicura. È questa la vera partita del gas: altro che le bollette.

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