Secondo l’amministratore delegato di Total, che ha parlato con gli investitori giovedì, non c’è molto spazio per un miglioramento dell’offerta di petrolio e gas; i Paesi dell’Opec sono già al massimo della produzione, ci sono tensioni geopolitiche, per esempio in Venezuela e in Libia, e anche i produttori americani fanno fatica ad aumentare la produzione.



In America manca personale specializzato dopo dieci anni di prezzi bassi che hanno costretto le società a tagliare e un crollo degli iscritti in università in corsi attinenti l’estrazione. L’amministratore delegato di Shell, un altro gigante della produzione di energia e di idrocarburi, ha dichiarato due giorni fa che è maggiore il rischio che i prezzi salgano piuttosto che scendano; anche in questo caso il problema è sul lato dell’offerta. Ieri la nostrana Saras, la più grande raffineria del Mediterraneo, ha dichiarato che a causa del mancato arrivo del petrolio russo non riesce a raffinare al massimo della capacità; proprio quando, tra l’altro, i margini di raffinazione sono ai massimi.



È difficile pensare che le dichiarazioni dell’ad di Total e Shell riflettano solo compiacimento per le condizioni del settore in cui operano. Più probabilmente sono grida d’allarme rivolte a un pubblico “politico” che pensa che si sia già visto il peggio e che i prezzi dovranno inevitabilmente scendere; se i prezzi non scendono, nessuno lo sa con certezza, i problemi di razionamento ed erosione del potere d’acquisto dei salari possono solo peggiorare.

La recessione e il rallentamento economico in teoria dovrebbero fare bene ai prezzi di gas e petrolio. Se la domanda scende, a parità di offerta, scendono anche i prezzi. In queste settimane, nonostante il rallentamento economico, i prezzi sono rimasti molto alti. Quelli del gas in Europa sono ai massimi di sempre, il gas americano è ai massimi degli ultimi 15 anni e il prezzo del petrolio ieri è salito del 4% rimanendo vicino a 100 dollari al barile.



Ci può essere una spiegazione finanziaria con la speculazione, soprattutto se la Fed dovesse rallentare la stretta monetaria, che si butta sulle commodity. Più probabilmente si prende atto che quello che abbiamo visto negli ultimi mesi sui mercati dell’energia è avvenuto con il petrolio russo ancora fuori dalle sanzioni, con una riduzione delle riserve strategiche americane mai vista e con il gas russo che comunque arriva in Europa anche se in misura ridotta o molto ridotta. Nei prossimi mesi il petrolio russo, come ci ha ricordato ieri Saras, non arriverà più, il gas russo potrebbe fermarsi e Biden, una volta chiusa la partita delle elezioni mid-term, dovrà smettere di vendere sul mercato le riserve strategiche. A questo si aggiungono, si pensi alla Libia ma non solo, le tensioni che si scaricano su alcuni Paesi produttori colpiti da conflitti o alle prese con disordini per il rincaro dei prezzi alimentari. Più si scende nella classifica dei Paesi ricchi, più la quota di reddito destinata all’alimentazione aumenta. 

Supponiamo che lo scenario dipinto da Shell e Total, tra gli altri, sia corretto e che rifletta non tanto la speculazione finanziaria, ma l’osservazione dell’offerta sul campo. Supponiamo che i prezzi rimangano a questi livelli o addirittura salgano. Il problema in questo caso è duplice. Il primo è economico perché i consumatori dovranno tagliare i beni più discrezionali. Il secondo è sociale perché il gas e il petrolio sono alla base della nostra civiltà industriale: plastica, elettricità, fertilizzanti, medicine, industria alimentare per fare alcuni esempi. 

Se l’ideologia “green”, contro il gas, il petrolio e il nucleare, o la tesi secondo non si può commerciare con Paesi che “non condividono i nostri valori”, per esempio l’Egitto ma non solo, non si arrendono al buon senso ci penserà la realtà. Quale? Quella delle proteste di piazza. Prima nei Paesi economicamente e socialmente più fragili e poi, a salire, negli altri. 

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