Nei primi sei mesi dell’anno i consumi di gas in Italia sono scesi del 16,5% rispetto allo stesso periodo del 2022. Merito non soltanto del clima più mite già prima dell’arrivo della primavera, ma anche, come ricorda Davide Tabarelli, «del rallentamento della produzione industriale». Per il nostro Paese il primo fornitore è diventata l’Algeria, con 11,3 miliardi di metri cubi importati nel primo semestre dell’anno, mentre dalla Libia ne sono arrivati 1,3 miliardi. Questo dato, secondo il Presidente di Nomisma Energia, rappresenta «il fallimento della politica italiana ed europea in quel Paese», visto che la capacità di esportazione verso la Sicilia attraverso il gasdotto GreenStream sulla carta potrebbe arrivare a 10 miliardi di metri cubi l’anno.



Come si spiega questa differenza tra flusso potenziale ed effettivo?

Con la necessità di maggiori investimenti, resi difficili, però, dalla situazione di instabilità libica. Occorrerebbe, quindi, un intervento per rendere il Paese più sicuro. Ma, come stiamo vedendo anche in Niger, è una questione che riguarda diversi Stati dell’Africa. Quello che avviene dall’altra parte del Mediterraneo rischia però di mettere in secondo piano i fallimenti della politica energetica europea e italiana sul fronte interno.



A che cosa si riferisce?

Le importazioni di gas dell’Ue sono pari a circa l’80% dei propri consumi. E il principale produttore dell’Unione è, o meglio era, l’Olanda, che aveva raggiunto un picco di 70 miliardi di metri cubi l’anno, ma che ora si avvia all’azzeramento con la chiusura del giacimento di Groningen. C’è, quindi, un enorme problema di produzione interna europea, presente anche in Italia: quest’anno consumeremo circa 65 miliardi di metri cubi, ma ne produrremo soltanto 3.

E dire che negli anni Novanta si era arrivati a 20 miliardi di metri cubi di produzione nazionale…



Sì, ma il punto vero è che la crisi energetica è iniziata da oltre un anno e da allora si è sempre parlato di stimolare la ripresa della produzione nazionale, ma non ci siamo riusciti, visto che nel primo semestre dell’anno è calata dell’8,2% rispetto allo stesso periodo del 2022.

Come si spiega questa diminuzione?

Si spiega con il fatto che se non vengono fatti investimenti non si può invertire il trend di medio lungo termine orientato al calo della produzione nazionale. In Italia, di fatto, a causa dei veti locali e dell’opposizione alle trivelle, non si riesce ad aumentare l’estrazione di gas. Per Eni alla fine è molto più conveniente andare all’estero che impegnarsi in Italia. Pensi che anche il rigassificatore di Piombino alla fine è stato accettato, ma solo a fronte dell’impegno di spostarlo tra tre anni: un’operazione che costerà milioni di euro che gli italiani dovranno, quindi, pagare.

Poco fa ha ricordato che la crisi energetica è iniziata poco più di un anno fa. La settimana scorsa, l’Amministratore delegato di Eon, Leonhard Birnbaum, ha detto che “la crisi non è ancora finita”. Cosa ne pensa?

Il problema è meno sentito per via dei prezzi lontani rispetto a quelli di un anno fa e per la fortuna che abbiamo avuto lo scorso inverno dal punto di vista climatico, ma effettivamente la crisi non è finita. In Europa si cerca, ed è un bene, di migliorare l’efficienza e di aumentare la produzione di elettricità via rinnovabili, ma ci si dimentica di aspetti banali, a partire, come detto prima, dalla produzione interna, che anziché essere aumentata viene ridotta. Il punto è che il sistema europeo del gas è tirato.

Cosa intende dire?

Il sistema, in condizioni normali, dovrebbe essere dimensionato per poter essere in grado di sopperire alla mancanza di una grossa fornitura, per esempio un guasto a un’importante infrastruttura. Essendo già venuto a mancare per larghissima parte il gas russo, il sistema da oltre un anno è al massimo della capacità e questo crea dei grossi rischi. Birnbaum ha voluto sottolineare che basta poco, come avvenuto nei giorni scorsi con uno sciopero in alcuni impianti di estrazione in Australia, per vedere diminuire l’offerta globale e trovarsi in Europa con più concorrenza rispetto alla propria domanda, e il rischio conseguente di mancanza fisica di materia prima, e con un rialzo improvviso dei prezzi che poi incidono sulle bollette dei cittadini. In inverno, quindi, le criticità si potrebbero ripresentare. Finora, oltre al clima, ci ha anche aiutato un rallentamento dell’economia, ma non è certo un bene.

Finora abbiamo parlato del gas, ma se passiamo al petrolio la situazione appare poco chiara. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, la domanda calerà gradualmente nei prossimi anni, ma intanto c’è chi stima che il prezzo del barile, oggi poco sopra gli 80 dollari, possa superare quota 100 entro la fine del 2023.

L’Agenzia internazionale dell’energia, probabilmente volendo cavalcare la convinzione ambientalista che si possa facilmente fare a meno del petrolio, va ripetendo da anni che la domanda diminuirà, ma regolarmente ciò non avviene. Addirittura quest’anno ci dovrebbe essere un aumento di 2,2 milioni di barili al giorno rispetto agli 1-1,5 milioni degli ultimi anni. È per questo che i prezzi non scendono e direi che 100 dollari al barile è una buona stima, ma si potrebbe andare oltre. Anche perché l’Arabia Saudita ha deciso di estendere temporalmente i tagli alla produzione. E anche in questo caso emerge un problema italiano ed europeo.

A che cosa si riferisce?

Al fatto che l’Italia, come altri Paesi europei, è un importante consumatore di prodotti derivati dal petrolio, ma rinuncia a utilizzare quello che ha sotto il suo suolo, come in Basilicata. Senza dimenticare i margini di raffinazione altissimi, dovuti anche al fatto che si chiudono raffinerie in continuazione in Europa e non si fanno investimenti su quelle esistenti. Di questo passo importeremo sempre più prodotti raffinati da altre parti del mondo, non certo aiutando così l’ambiente. Si discute tanto di terre rare, ma anche gas e petrolio sono materie prime strategiche. Si sceglie, però, di non parlarne per dare la precedenza alle rinnovabili.

(Lorenzo Torrisi)

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