Vorrebbero imitare Julian Assange, il super ricercato mondiale che sta facendo tremare i grandi del pianeta per i suoi gossip-file raccattati a intercettare le chiacchiere di ambasciatori e consoli onorari davanti alla macchinetta del caffè. Si fanno chiamare “Iene”, forse perché lo sputtanamento altrui gli provoca attacchi di riso imbecille, ma assomigliano molto più a spelacchiati sciacalli, sempre pronti a denunciare con il ghigno sulle labbra le miserie umane (quelle degli altri) e per questo ricevono lauti compensi. Si spacciano per reporter ma fanno del giornalismo cabaret, usano attori e guitti per le loro inchieste fiction e si affidano alle forme di veline e soubrette in attesa di un posto al Grande Fratello.



Non siamo su Wikileaks ma più modestamente su Italia 1, la tv più trendy e spettinata dell’impero berlusconiano, voluta e tollerata così dal Cavaliere perché tanto la vedono in pochi. Ma sono quelli che mai andrebbero a posare il loro telecomando sulle gag di Emilio Fede o le ispirate benedizioni di Gerry Scotti, il paciarotto che tutte le nonne d’Italia vorrebbero come nipote. L’audience di Mediaset, si sa, è come l’arco costituzionale e quello di Italia Uno sarà forse scarso ma sufficiente a spingere un poveraccio di prete, a fine carriera e con vizietto inconfessabile, a buttarsi sotto il treno per la vergogna e il crepacuore.



Don Sergio Recanati aveva 51 anni: alcuni mesi fa era finito nel mirino della trasmissione tv “Le Iene” con l’accusa di aver molestato due ragazzi fingendo di fornire loro un supporto spirituale. In più servizi con telecamera nascosta le Iene lo avevano ripreso nei suoi tentativi di approcci e l’hanno mandato in onda.

E pure al cimitero, ucciso dalla gogna mediatica, quello inventata ben prima della comparsa delle Iene ma che oggi ha in quei pirlotti vestititi di nero come i Blues Brothers e nei blitz ricciani degli “inviati” di Striscia la Notizia l’espressione più compiuta e aggressiva. Questi non vanno a caccia di notizie, le creano, le inventano e le provocano. La loro realtà è la messa in scena: ai finti maghi e indovini mandano un finto cliente angosciato per l’amore perduto, al guaritore farlocco spediscono l’attore che si finge malato, a chi promette miracoli mandano clienti camuffandoli da tonti del villaggio.



Insomma: personaggi improbabili ma bravissimi nel loro lavoro di istigatori a delinquere. Così, avuto notizia di un prete con tendenze gay, le Iene hanno fatto scattare la trappola: hanno inviato una giovane comparsa a fare da esca nella tana del lupo, a risvegliare e stimolare nel sacerdote di Caravaggio le sue inconfessabili passioni. Fingendosi minorenne e omosessuale, il ragazzo si è presentato al prete per confidargli le sue preferenze sessuali. Dal video mandato in onda, si capisce che il sacerdote abbraccia il ragazzo e tenta di baciarlo.

Certo, il suo viso veniva oscurato e pure la voce camuffata, ma nel filmato c’erano indizi chiarissimi che portavano al riconoscimento del disgraziato prete: il gesticolare caratteristico, il modo di atteggiarsi e, soprattutto, l’inquadratura del santuario di Caravaggio dove il sacerdote aveva il suo ufficio. Dopo questo episodio, S. R. era stato sospeso dalle sue funzioni e inviato in una comunità di cura dove stava seguendo un percorso di recupero psicologico e spirituale. Finito sulla massicciata del diretto per Venezia.

Qualcuno dice che trasmissioni come “Le Iene” sono esempi di giornalismo. Anzi, di più: giornalismo di inchiesta. Adescare un prete, abbozzare alle sue toccatine, anzi, incoraggiarle, riprendere la scena di nascosto e mandarla in onda: tutta questa pagliacciata cos’ha a che vedere con l’informazione? Quale lo scopo dello scoop? Documentare che la Chiesa è zeppa di sacerdoti orchi, pedofili e pederasti? La prossima volta perché non ci mandano la Marcuzzi in topless in un convento di cappuccini a mettere alla prova la moralità dei frati? Oppure, la bella Ilary Blasi potrebbe andare fare la danza dei sette veli di Salomè nella grande moschea di Roma, nelle ore di punta del venerdì quando la concentrazione di iman e islamici barbuti è al suo massimo.

Certo, queste Iene della mutua si guardano bene dallo spedire il loro muscoloso attore a fare moine e ammiccamenti in un circolo dell’Arcigay. La mattina dopo sarebbero sommersi di proteste, contro di loro si scatenerebbe tutta la lobby omosex fino alle interrogazioni in Parlamento. Ma no, troppo rischioso per queste Iene spelacchiate scatenare l’ira dei gay organizzati o sfidare le scimitarre di Allah. Meglio andare a sfruculiare i bassi istinti di un pretazzo che tanto il Vaticano mica lancerà una fatwa contro il trio Medusa, Gimmy Ghione o Capitan Ventosa.

La Chiesa conta un fico secco, dunque nel suo recinto c’è libertà di fuoco. Cialtroni per ruolo e molestatori (loro sì) di professione, quando azzannano una preda non la lasciano più: la puntano, l’assaltano, la inseguono, la tormentano sperando che questa, presa dall’esasperazione, sbrocchi e dia in escandescenze davanti alle telecamere. Meriterebbero di venire allontanati con un bel calcio in culo, ma il più delle volte i torturati si sottomettono volentieri al supplizio, i politici poi paiono godere in special modo.

Non tutti infatti hanno il coraggio che ebbe l’allora sottosegretario ai Beni culturali, Vittorio Sgarbi, quando querelò i conduttori delle Iene per averlo definito “un drogato”, “parlamentare assenteista che ruba lo stipendio”. Sgarbi chiese quasi 52 milioni di euro come risarcimento per il danno d’immagine subito. In un’altra occasione, il focoso critico arrivò a spaccare in testa il Tapiro di polistirolo al noioso Staffelli e a respingere l’ennesimo assalto delle Iene al grido di: “Culattoni raccomandati”.

Beh, il povero prete di Caravaggio non ha chiesto indennizzi milionari né ha scagliato il suo crocefisso sul finto gay: si è buttato in silenzio dal ponte della ferrovia nelle campagne di Caravaggio, schiacciato dalla vergogna e dall’insopportabile fragilità. Ovvio, le Iene non si aspettavano questo epilogo né lo desideravano, ma sarà bene che riflettano, come ha ammonito il vescovo di Cremona ai funerali di don Sergio, a quali estremi può portare l’incosciente caccia al mostro, il prendersi gioco “di tutto e di tutti senza pensare alla loro sofferenza”.

 

Usare della vita degli altri per alzare l’audience televisivo è roba da aguzzini, da kapò e criminali mediatici. Confondere il giornalismo con il far west e la messa alla gogna dei più deboli è invece da codardi, da giustizieri e sceriffi senza stella che vogliono arrestare mezzo mondo solo per far divertire l’altra metà.