È legalmente giusto e politicamente coi fiocchi, corretto fino all’ultimo punto e  virgola. Nessuna coppia si metta più in mente di chiedere l’adozione specificando il colore della pelle del piccolo adottato: mica siamo al supermercato, al negozio dove paghi uno e pigli tre. Eh no, care mamme e papà: con i bambini non funziona come con i cuccioli al canile. Si prende quel che c’è: per il pupo di Bahia e l’orfano di Timisoara non sono ammesse ordinazioni a domicilio.

Così la Cassazione anticipa che emetterà un verdetto di condanna per quella coppia siciliana che vuole adottare bimbi solo di pelle chiara. Giusto?
A costo di figurare come irriducibili bastian contrari e provocatori senza licenza,  proviamo a spiegare perché il blind trust nel campo delle adozioni non funziona.  A costo di scandalizzare i fans dell’antirazzismo e dell’uguaglianza infantile. Perché in certi casi ciò che è giusto non è mica  detto che sia anche amico del bene.

Ecco la tesi: sotto la presunta equidistanza affettiva e indifferenza etnica, la “scelta cieca” ha lo stesso simmetrico potenziale discriminatorio dell’adozione selettiva. Con buona pace di alcuni rappresentanti di enti che si occupano di adozione internazionale i quali salutano il pronunciamento dei giudici come un importante passo “verso la cultura dei diritti dei minori”.

Ma quel presunto razzismo (ammesso ci sia davvero) non rischia così di trasformarsi nel suo doppio? Una  discriminazione che andrebbe a colpire non più gli adottati ma gli adottanti. Che, come il bambino, sono i protagonisti nell’avventura umana, affettiva ed educativa di un’adozione.

D’accordo, leggi e regole sono indispensabili perché non prevalgano arbitrio e capricci e sia garantito il principio che tutti i bambini sono uguali e hanno pari diritti. Ma dite: dove sta il crimine se le coppie italiane preferiscono piccoli che vengono da certe aree geografiche e non hanno perciò la pelle scura?

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È luogo comune e frutto di semplificazione mediatica sospettare che dietro tale scelta ci sia sempre una sorta di concezione goebbelsiana dell’infanzia, per cui i genitori che esprimono una preferenza di pelle sono subito accusati di essere fans della selezione razziale, di volere un bambino bianco “meglio se biondo e dagli occhi azzurri”.

Ma via, c’è ancora qualcuno che può credere a una simile baggianata? Nel caso particolare, quei genitori siciliani erano disposti ad accogliere non uno ma due orfani e  non  ponevano preferenze di sesso e  religione. Il Tribunale dei minori di Catania aveva già dato il via libera, dichiarando i coniugi idonei all’adozione. La pratica, però, è stata fermata dall’Aibi (ente riconosciuto per le adozioni internazionali) che ha fatto ricorso perché, come ha dichiarato il suo presidente Marco Griffini,  “la razza non può essere elemento di discriminazione ed esclusione”.
 
Bene, bravo, bis. E chi se ne importa se in nome di questo principio universale, quei due orfani, magari ucraini o romeni, russi oppure svizzeri, non potranno avere una famiglia e dei genitori con i quali ricominciare una vita.  Glielo spiegherà  il dottor Griffini a quei due orfani che sono stati sacrificati perché trionfasse la giustizia universale e decolorata?

Assurdo: non a caso il Tribunale di Catania ha agito in base alle leggi vigenti che tengono conto delle capacità e idoneità delle coppie a sostenere l’impegno e il peso di un’adozione. Che è sempre difficile e tormentata. Probabilmente i coniugi siciliani potevano rivolgersi a un altro ente (ce ne sono 70), ma non è questo il punto. La questione è la reazione che si è scatenata sul caso: una condanna corale, quasi un linciaggio, come se quei due avessero perpetrato un orrendo crimine. Tra l’altro, e questo è tragicamente comico, un crimine che sarebbe stato consumato ai danni dei bambini virtualmente “non adottati”.

 

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Qualche elegante opinionista (la signora Barbara Palombelli del Tg5), presa d’entusiasmo da quel pronunciamento tribunalizio,  ha minacciosamente avvertito tutte le coppie italiane che d’ora in poi la “compera al supermarket (e ridàgli) è  finita e chi vuole adottare un bambino  deve prendere al buio (sic)”. Altrimenti, se ne facciano una ragione e si accontentino di un volpino randagio (ma pure l’adozione canina non è tanto facile).

Qualcuno dovrebbe spiegare a queste improbabili Superwoman che l’adozione non è un gioco d’azzardo né cosa riservata agli eroi. Che strappare dalla strada e dallo sniffare colla un bambino di Bucarest o togliere dall’orfanatrofio una piccina ucraina comporta la stessa  dedizione e gratuità dell’adottare un bambino africano o di Haiti. Mica tutte le mamme sono come Madonna, Sandra Bullock o Angelina Jolie che abbinano la pelle dei loro bimbi adottivi alla collezione griffata. Pure a loro dovrebbe essere proibito la scelta del bambino di colore, dato che la tendenza dei vip di Hollywood è per il total black.

La scelta consapevole, l’impegno convinto e responsabile, la decisione di dare una speranza a piccole vite già spezzate,  non diventano più autentiche e vere solo perché l’oggetto dell’amore è lasciato al caso.

Le regole vanno rispettate, certo, ma non è questione di  solo principi e idee. In gioco, ci sono  bambini e genitori reali, persone vive. Ci sono l’angoscia e la gioia di madri e padri e non solo codici da interpretare.  Nell’adozione, i protagonisti  cercano lo stesso bene: qualcuno da amare per  essere amati. Il resto è roba da azzeccagarbugli o, peggio ancora, da ipocriti arruffapopoli di professione.