E’ già record di incassi per il terzo capitolo della saga vampiresca di Twilight, Eclipse, interpretato dagli idoli dei teenager Kirsten Stewart e Robert Pattinson. Ed è “vampiri-mania”, non solo in Italia, ma in tutto il mondo.
La notizia sta su un giornale americano che si chiama Vampyres Only, che tradotto significa pressapoco: “Tuttovampiri”. Leggiamo: «ll dittatore Milosevic rappresenta un pericolo per la Serbia anche dopo la sua morte. Alcuni vampire hunters (cacciatori di vampiri) improvvisati hanno già provato a piantare un paletto nel petto del defunto dittatore, ma non sono riusciti a raggiungere il cuore e hanno danneggiato solo la bara. La figlia di Milosevic ha, quindi, assoldato alcune guardie che vigilino sul corpo del padre».
Fine della notizia. Siete basiti? Avete ragione. E non pensate che solo in Serbia possano liberamente circolare matti così che scorazzano per cimiteri a infilzare paletti nei cadaveri. L’Est europeo è pieno di simili storie. Proprio sui Carpazi, c’è il castello di Vlad III Tepes, detto l’Impalatore (principe guerriero romeno che combattè l’esercito ottomano) e soprannominato Dracul, cioè demonio. E se Transilvania significa “al di là della foresta”, si può ben supporre che da queste parti siano abituati a guardare anche oltre la realtà. Nella zona di Snagov, a pochi chilometri da Bucarest, doveva sorgere il Dracula Park, una sorta di Disneyland dell’orrore, un investimento miliardario rimasto, per il momento, sulla carta. Le proteste degli ambientalisti, dell’Unesco e persino del principe Carlo d’Inghilterra hanno convinto il governo a rinviare la costruzione del baraccone vampiresco.
Da tempo, Dracula e i suoi fratelli hanno però lasciato i boschi della Transilvania per accomodarsi in più tranquille librerie, studi televisivi, pagine di giornali e remake dei film d’autore.
Nella letteratura, resta imbattuto il best-seller di Anne Rice, Intervista col Vampiro, mentre al cinema (il genere consta di almeno 300 pellicole) sono ancora Herzog con il suo Nosfe-ratu e F. Ford Coppola a dettare legge. Ma è soprattutto su internet che il principe succhia-sangue svolazza alla grande e affonda i canini nelle disponibili vene dei navigatori. La Rete si è trasformata ormai in un vero covo di pipistrelli, con decine e decine di siti dai nomi inconfondibili: vampiri.net, tenebra.com, bourbonstreet.com, dracula.it, vampangel.it o cuoreditenebra.it.
La creatura dell’oltretomba, vive una nuova giovinezza, l’ennesima nella sua storia millenaria, alimentata dalle paure, incubi e paranoie dell’abitante della civiltà metropolitana. Nonostante il nichilismo della generazione attuale, anzi: proprio grazie a questo. Spazzati via sentimento e cultura religiosi, il Dio ucciso e morto viene sostituito dal Principe dello sprofondo, invincibile ed eterno révenant. Che non ha però il volto misericordioso e salvifico della divinità, ma la maschera orribile e terrificante del demone, della creatura oscena, costretta a uccidere per restare in vita.
E pensare che Voltaire, nei fumi della sbronza illuministica, celebrava la potenza della ragione contro gli spaventosi fantasmi della superstizione e della religione. «Nessuno», pontificava il filosofo, «sentirà mai più parlare di vampiri». Mai profezia fu meno azzeccata. La storia si fa beffe della superbia del club degli illuminati.
I morsi di Dracula hanno prodotto opere firmate dai migliori ingegni letterari: Goethe, Byron, Baudelaire, Keats, Stoker (l’inventore del conte Dracula), Polidori, Tolstoj, Dumas, Dickens.
L’universalità e la permanenza del vampiro si spiegano per il fatto che il personaggio è la somma di una costellazione di simboli poiché rievoca ciò che è al cuore stesso dell’esistenza: il sangue, la vita, la morte. Così come il sogno di immortalità che ciascuno di noi culla inconsapevolmente.
È dunque questo che terrorizza e insieme affascina l’animo umano? «Siamo attratti dai vampiri perché rappresentano la vittoria sulla morte, la resurrezione della carne», scrive Anne Rice, la più popolare scrittrice americana di storie vampiresche. «E in più raffigurano il tema della sfida a Dio, alle leggi della natura». Spetta alla Rice il merito di aver fatto riscoprire negli anni Ottanta i nipotini di Dracula, raccontando la saga di Lestat, un Nosferatu triste e pieno di sensi di colpa apparso per la prima volta nelle pagine dell’Intervista col vampiro. Creatura fragile, smarrita, condannata a torturarsi e a provare l’angoscia della vita eterna, Lestat è un’inedita incarnazione dell’intensità del dolore e della nostalgia di un’esistenza perduta per sempre.
Eccola l’impossibile sfida, il desiderio principe che agita il cuore di ogni uomo e che lo rende simile al vampiro. Di questo passo, Dracula potrebbe portare all’Onnipotente.
È solo alla fine del Novecento che arrivano i primi vampiri post-moderni, quasi dei Dracula atei-devoti: l’efficace definizione è di Massimo Introvigne, massimo esperto di sette e occultismo. Nell’opera rock di Zard, ad esempio, questo è il messaggio finale: scienza e modernità non salvano l’uomo-vampiro; costui non viene più ucciso con un paletto nel cuore, ma muore suicida. Affronta la distruttiva luce del giorno perché vuol morire accanto alla donna amata. In lui Male e Bene accorciano le distanze, si mescolano. Il vampiro può riscattare se stesso con un sacrificio d’amore, metafora della Redenzione attraverso l’espiazione. Lettura suggestiva e forse mica tanto lontana dal centro della questione.
Scrive l’ateo Luigi Pirandello nelle sue Novelle: «Spesso la grandezza mia consiste», dice lo scrittore siciliano, «nel sentirmi infinitamente piccolo: ma piccola anche per me la terra, e oltre i monti, oltre i mari cerco per me qualcosa che per forza ha da esserci, altrimenti non mi spiegherei quest’ansia che mi tiene, e mi fa sospirar le stelle».
Sospirar le stelle. Anche il vampiro, nonostante la sua forza fisica superiore, l’energia mentale, la straordinaria sensualità che possiede, è condannato a questo stato d’animo: sospiro, ansia e melanconia. Scrive Vito Teti, nel suo libro La melanconia del vampiro: «Il vampiro melanconico esprime la nostalgia dell’altrove, una diversa nostalgia della vita… Nel suo delirio di onnipotenza e nella ricerca di eternità egli scorge la sua fragilità. Il vampiro appare melanconico perché vede l’orrore della sua condizione…».
E il Nosferatu di Herzog confessa con sconsolata tristezza: «Ci sono fatti ben peggiori e orribili della morte: durare attraverso i secoli sperimentando ogni giorno le stesse futili cose». Sì, tristezza legata alla sensazione di vivere insensatamente, esistere senza sentirsi vivo.
Così, la melanconia del vampiro diventa metafora della noia e dell’inutilità umana. Ma Nosferatu rifiuta le facili consolazioni, e non si accomoda subito sul lettino di Freud. C’è in gioco qualcosa di più di una raffinata introspezione: ci sono, necessari e inconsolabili, il dolore della vita e il dolore della morte. E il desiderio inappagato di una felicità possibile. Insomma, il vampiro siamo noi. Noi come Nosferatu, spaesati nelle notti senza fine, tallonati dalla morte, alla ricerca di un qualcosa che però non si trova tra le rovine. Che «per forza ha da esserci» e che ci fa «sospirare le stelle».