“Tra pochi giorni compio 60 anni. Il bilancio si fa in fretta: non ho combinato niente. A parte i danni”. Comincia così una lettera-confessione che l’ex terrorista Enrico Galmozzi, fondatore con Sergio Segio di Prima Linea, ha scritto sul suo profilo di Facebook e che la scorsa settimana il Corriere della Sera ha rilanciato. E’ un’analisi fredda e spietata degli errori e dei delitti di una generazione, quella che negli anni Settanta seguì l’illusione tragica e crudele che si potesse cambiare la società e l’umanità con il terrore e l’eliminazione assassina del nemico.
Galmozzi è stato condannato a 27 anni per la partecipazione agli omicidi del militante missino Enrico Pedenovi nel ’76 e del brigadiere Giuseppe Ciotta nel ’77. Gli è stata risparmiata la pena dell’ergastolo in quanto «non irriducibile». Oggi Galmozzi è grossista di scatole per gioielli a Milano nonché scrittore di libri sull’ impresa fiumana di D’ Annunzio. Ai suoi ex compagni degli anni di piombo è toccata una sorte diversa, forse meno disincantata della sua e, comunque, non hanno dismesso l’impegno civile e politico: Sergio Segio è diventato il braccio destro di don Ciotti, Sergio D’Elia, altro ex di Prima Linea, è parlamentare radicale e leader di “Nessuno tocchi Caino”.
Il suo “bilancio esistenziale” Galmozzi lo ha affidato a Facebook preceduto da un clip col monologo finale di Blade Runner e il risultato, ha scritto Paolo Foschini sul Corriere, “è una rasoiata più profonda di un trattato sociologico”. Ve lo riproponiamo così com’è, senza aggiunta di commenti. Solo, e alla fine, qualche domanda, lasciando ai lettori il compito difficile di trarre qualche conclusione. Se è possibile. Ecco il testo della confessione di Galmozzi.
“Ho vissuto come nel primo tempo di un cattivo film d’azione: spari, bombe, inseguimenti senza uno stralcio di sceneggiatura. Speravo che il secondo tempo e magari un bel finale riscattassero il tutto e invece è seguito un film minimalista di quelli in cui non succede nulla. E il tutto non è neppure originale: incarno perfettamente il tipo medio di quella parte della mia generazione che ha assommato la rovina pubblica a quella privata. Studi interrotti, carriere professionali troncate o mai iniziate, progetti mai portati a termine, edificazione di profili incerti di soggetti senza arte né parte ai quali i più sagaci di noi hanno pure trovato un nome accattivante: cognitariato. Praticamente chiunque non sappia fare un bel niente rientra nella categoria del cognitaro. In questo siamo sempre stati imbattibili: trovare nomi irresistibili per le minchiate che spariamo”.
“Abbiamo fatto figli solitamente col partner sbagliato. E i più di noi si aggrappano a loro per dare un senso a questo deserto, caricandoli di aspettative. Ma poi i figli crescono, si trasferiscono e manco ci telefonano più. Come è giusto. E del resto mette conto di dire che razza di figli siamo stati noi, io ricordo che mio padre mi guardava e non capiva… O forse aveva capito tutto… Siamo passati attraverso immani disastri convinti di avere sempre ragione, avendo avuto invece sempre torto. Ma, tanto, da quegli inarrivabili affabulatori che siamo sempre stati riusciremo a trovare qualcosa di eroico anche in questo. Abbiamo passato la vita a parlare di cose di cui non sapevamo nulla. Da domani non chiedetemi più pareri su cose per le quali nutro ormai solo indifferenza. Sarà il mio piccolo contributo recato nella direzione di ciò che tutti noi dovremmo veramente fare: dileguarci”.
C’è qualcosa da aggiungere a tanta desolata lucidità? Cosa pensare davanti all’acuminata descrizione di un fallimento esistenziale così totale e disperato da chiudere per sempre ogni spiraglio sul futuro? Dileguarsi, sparire e tacere: davvero è ciò che resta per chi ha commesso errori tanto tragici e irreparabili? Sedersi finalmente dalla parte del torto. E poi?
A Galmozzi non mancano certo l’onestà e la lucidità per ammettere tali sbagli: forse, quello che tragicamente non esiste in lui è la ragionevole umiltà di chiamarli con il loro vero nome. Rifiuta ogni finta consolazione e sottrae le spalle alle pacche che gli amici vorrebbero ipocritamente rifilargli per evitargli l’ingloriosa fine. Perché con lui pure loro sarebbero condannati all’inferno eterno e alla perpetua disperazione. Ma la questione non può chiudersi così, c’è ancora qualcosa che manca, un’assenza che trasforma la confessione in una spaventosa resa al nulla.
Forse il coraggio di chiedere perdono e riconoscere che l’errore è solo manifestazione di qualcosa di più profondo e diabolico che ha in noi la sorgente delle sue metastasi. Chiamare gli sbagli mali e chiedere se ci sia ancora possibilità di misericordia. Questo, forse, è quel che all’irriducibile Galmozzi ancora non riesce di fare.