Caro direttore,
la redazione chiede una riflessione sull’attacco portato in Parlamento dalla senatrice a vita Liliana Segre al progetto di premierato. Come in altre occasioni, il collaboratore del Sussidiario propone qualche sua nota a margine, ma per l’ultima volta. È una libera scelta, per ragioni che si pongono d’altronde come premessa integrante di questo post.
La senatrice Segre è – giustamente, insindacabilmente – protetta da una “linea rossa” invalicabile per chi voglia mantenere un rispetto umano assoluto per una 93enne reduce da Auschwitz, testimone instancabile della Shoah. Un muro infrangibile per chiunque – soprattutto sui media – voglia confermare il proprio rifiuto per ogni forma di antisemitismo, soprattutto dopo il 7 Ottobre. È in teoria un vincolo non incompatibile con il ragionare giornalistico sulle parole e sugli atti strettamente politici della senatrice a vita (peraltro figura di parlamentare non eletta sconosciuta altrove nella Ue e negli Usa). Tuttavia in concreto – a maggior ragione nell’eccezionale contesto attuale – tenere assieme il rispetto personale, la condanna assoluta dell’antisemitismo e l’analisi politico-istituzionale può rivelarsi un esercizio oltre i limiti della praticabilità. Il rischio di accuse di antisemitismo è sempre in agguato, anche quando – nell’arco di 24 ore – la senatrice stessa ha voluto introdurre la polemica sul premierato con la denuncia del ritorno dell’odio antisemita nei suoi confronti.
La cronaca internazionale, dal canto suo, non tranquillizza: a cominciare da quella proveniente dagli Stati Uniti, l’hub storico delle libertà civili e politiche, dove il Primo emendamento alla Costituzione tutela da più di due secoli sia la libertà di parola sia la laicità dello Stato. Dopo la frenata sulle bombe americane dirette a Gaza, dal governo israeliano sono partite direttamente verso la Casa Bianca accuse di fiancheggiamento ad Hamas, soltanto mezzo passo prima di quelle di antisemitismo (e il presidente Joe Biden, in campagna elettorale contro Donald Trump, si è visto costretto a controbatterle).
Gerusalemme ha tacciato di antisemitismo l’Onu, dove l’Assemblea generale ha votato a larghissima maggioranza a favore dell’ingresso di un futuro Stato palestinese al Palazzo di Vetro (qui l’ambasciatore israeliano si è reso protagonista di un atto senza precedenti: ha stracciato sul palco la Carta statutaria delle Nazioni Unite).
La rettrice di Harvard è stata cacciata su due piedi, inseguita dall’accusa di antisemitismo, per aver difeso la libertà dei suoi studenti a protestare contro Israele (il posto di Pauline Gay – donna afro non israelita – è stato subito riassegnato a un collega israelita, senza remore “politically correct” per il suo essere “uomo bianco”). Alla Columbia la rettrice resiste al suo posto solo perché, dopo essere stata “grigliata” dai deputati repubblicani trumpiani al Congresso per sospetta tolleranza antisemita, ha subito autorizzato uno sgombero di polizia con decine di arresti nel campus simbolo dell’antagonismo studentesco “liberal”. Minouche Shafik ha perso la fiducia di gran parte dei docenti e studenti ma viene puntellata – ha scritto il New York Times con nomi e cifre – da importanti fondazioni israelite, donatrici dell’ateneo newyorkese per decine di milioni di dollari.
La questione dei rapporti fra Memoria della Shoah, antisemitismo, antisionismo, confronto politico e geopolitico sugli esiti della guerra di Gaza sta d’altronde arroventando il dibattito interno allo stesso Stato ebraico. A cavallo della 76esima Giornata dell’Indipendenza – rotta da manifestazioni contro il governo Netanyahu – su Haaretz, quotidiano-guida della sinistra d’opposizione, è comparso un op-ed con questo titolo: “Cosa accadrà quando l’Olocausto non impedirà più al mondo di guardare a Israele per quello che è”?
“Israele – ha scritto Hagai El-Ad, storico attivista dei diritti civili nello Stato ebraico – è diventato vittima sia di un regime di suprematismo ebraico verso i palestinesi sia della sua abilità nell’utilizzo (leverage) della memoria dell’Olocausto… non è vero che chiunque veda nei palestinesi degli esseri umani con dei diritti sia un antisemita”. Parole pubblicate dopo che il premier israeliano, commemorando il Ricordo della Shoah, aveva attaccato frontalmente la Corte internazionale di giustizia, pronta a emettere contro di lui provvedimenti per presunti crimini di guerra a Gaza. La ICJ – ammoniva Netanyahu – avrebbe il dovere di combattere l’antisemitismo, non lo Stato ebraico.
Sempre su Haaretz, un altro opinionista, l’ex diplomatico Alon Pinkas, ha fotografato così Israele oggi: “Uno stato che si sta inesorabilmente dividendo in due: uno secolare, hi-tech, cosmopolita, imperfetto ma liberale; l’altro ‘Regno di Giudea’, suprematista ebraico, ultranazionalista, teocratico, messianico, tendenzialmente anti-democratico e isolato”. Ancora una volta, il ricorso ormai sistematico alle “fatwe” sull’odio razziale contro gli ebrei – su qualsiasi questione – sarebbe la spia di una crisi profonda, comune allo Stato d’Israele e all’ebraismo della diaspora.
Su questo sfondo, più largo del cortile italiano, la lettura del doppio ritorno in scena della senatrice Segre si pone in termini non facili. È del tutto comprensibile – e meritevole di piena solidarietà – il suo sfogo contro i messaggi di odio personale frammisti alle proteste studentesche anti-israeliane. Sarebbe però improprio ragionarne in modo del tutto decontestualizzato. È vero che da cortei e presidi che da tre mesi punteggiano anche l’Italia sono giunti spesso slogan contro la senatrice: la quale già in occasione dell’ultima Giornata della Memoria aveva affermato chiaramente di “non rispondere” delle scelte del governo israeliano nella reazione all’aggressione terroristica di Hamas; e di provare “angoscia per tutti i bambini colpiti dalla guerra”. Ma questo evidentemente non è bastato alla porzione italiana di un’opinione pubblica giovanile occidentale, ormai più urtata da quanto accade a Gaza che dal ricordo del 7 Ottobre. Così come non è bastata all’establishment Usa un’intervista rilasciata dalla senatrice al New York Times: questa era parsa anche un avvertimento alla comunità ebraica statunitense, e forse anche a Gerusalemme, sui rischi di radicalizzazione delle contestazioni a Israele in seguito al protrarsi del sanguinoso sgombero militare a Gaza. Però proprio a New York c’è chi è stato più franco: Chuck Schumer – israelita, capogruppo dei senatori dem al Congresso – ha auspicato la rimozione di Bibi Netanyahu come “ostacolo alla pace” e problema ormai grave per lo Stato ebraico.
Certamente al di là di ogni dubbio sulla parola e sulla buona fede della senatrice, non è facile neppure dimenticare che nell’autunno 2019 sui messaggi d’odio alla Segre fu imbastito da sinistra un grande “battage” politico-mediatico, incardinato nella campagna elettorale per le regionali del 2020 in Emilia-Romagna (ne fu beneficiaria anche l’attuale leader dem Elly Schlein). Allora, tuttavia, la senatrice non confermò l’esistenza di quell’“onda” nelle forme e dimensioni rilanciate dai media. Fin da quei giorni la senatrice fu invece chiamata alla guida di una commissione parlamentare straordinaria incaricata di studiare i fenomeni di odio in Italia, con riguardo particolare all’antisemitismo.
La “commissione Segre” – sul Sussidiario è già stato ricordato – è stata mantenuta attiva anche dal Parlamento eletto nel 2022. Di fronte a nuovi allarmi – lanciati ancora personalmente dalla senatrice – appare lecito chiedersi come mai dopo cinque anni e l’avvicendarsi di due parlamenti la commissione non sia riuscita a partorire alcuna iniziativa visibile; e come mai neppure l’allora maggioranza M5s-Pd – oggi non certo silenziata all’opposizione – abbia mai concretizzato proposte normative per l’Italia sul modello di altre legislazioni nazionali. Eppure nell’ultima campagna per il voto politico il Pd non ha mancato di cavalcare altre questioni “anti-odio”, sul fronte dell’omotransfobia piuttosto che dell’accoglienza dei migranti.
Se l’“onda nera” – antisemita o diversa – sembra dunque materializzarsi a sinistra essenzialmente come emergenza elettorale, cinque anni dopo il contesto politico appare più problematico. Nel 2019 per la senatrice Segre tifavano apertamente (oltre al mondo cattolico) le “sardine” universitarie, da cui oggi parte invece qualche fischio contro il (presunto) “odio” israeliano verso i palestinesi. E nel 2024 a favore della libertà di protesta dei giovani italiani filopalestinesi – a patto che non sconfini nell’“intolleranza” – si è espresso il Presidente della Repubblica, la massima autorità dello Stato. Quella che, fra l’altro, ha nominato Segre senatrice a vita.
Pochi giorni fa, lo stesso Sergio Mattarella è volato a New York appositamente per ribadire davanti all’assemblea dell’Onu l’assoluto sostegno dell’Italia alle Nazioni Unite e ai valori del multilateralismo nella costruzione di un mondo il più possibile pacifico. E sulla crisi in Medio Oriente è stato netto: “Occorre porre fine alla catena di azioni e reazioni e consentire l’avvio di un processo che ponga termine ai massacri, conduca finalmente a una pace stabile: una soluzione che passa necessariamente dall’obiettivo condiviso del pieno e reciproco riconoscimento dei due Stati di Israele e di Palestina, con il definitivo riconoscimento di Israele e della sua sicurezza da parte degli Stati della regione”.
Il Capo dello Stato è forse l’unico italiano a potersi considerare al riparo, oggi, dal rischio di accuse di antisionismo/antisemitismo per i suoi appelli a favore di un cessate il fuoco immediato a Gaza e per la “soluzione due Stati”. Se perfino Papa Francesco – al di là del Tevere – si è meritato una protesta diplomatica per un suo Angelus, nessuno ha avuto finora il coraggio di criticare il Quirinale: neppure quando ha fermato il Governo dopo “i manganelli di Pisa”.
Quell’intervento delle forze dell’ordine, ordinato dal Viminale, era volto a stroncare sul nascere le manifestazioni anti-israeliane in Italia. Visto in retrospettiva, il governo Meloni ha aperto con anticipo una strada seguita poi dai poliziotti di New York e Los Angeles, lungamente invocati dai repubblicani filo-israeliani e alla fine spalleggiati anche dalla Casa Bianca dem. In Italia, invece, l’altolà del Quirinale ha oggettivamente favorito la proliferazione di manifestazioni e tendopoli. E dopo crescenti segnali di nervosismo da parte delle comunità ebraiche nazionali, è giunta infine la dura presa di posizione della senatrice Segre, che ha denunciato il ritorno dell’antisemitismo con toni non così diversi da quelli della destra al governo a Gerusalemme. Ha preferito però sorvolare sulla catena di cause ed effetti – sia geopolitici che politico-istituzionali interni – che ha portato a far risuonare con tono ostile il suo nome nelle piazze italiane.
È stato comunque questo, per la senatrice, l’abbrivio per muovere subito su un secondo fronte, di pura politica interna, con la contestazione frontale del progetto di premierato giunto nelle aule parlamentari. Non è la prima volta che Segre prende la parola in Senato per evocare rischi di involuzione “nazifascista” per la democrazia italiana: lo fece anche salutando la nascita del governo M5s-Pd, dopo il “ribaltone” dell’estate 2019.
Il fatto che oggi abbia voluto dare pubblicità alla sua contrarietà a un importante progetto di riforma costituzionale rientra come allora nella fisiologia istituzionale e appare coerente nel merito politico. Non può, d’altronde, non suscitare qualche interrogativo osservare come il bersaglio della polemica “antifascista” sul premierato sia lo stesso governo che ha sfidato l’impopolarità – e meritato un’inusuale reprimenda del Capo dello Stato e una sconfitta elettorale in Sardegna – pur di difendere alcuni “luoghi sensibili” dell’ebraismo a Pisa da marce che Israele considera “antisemite”. Un esecutivo che – se il Quirinale “libertario e pacifista” non l’avesse impedito, sfiorando un fallo a gamba tesa – avrebbe continuato a usare una mano “americana” nelle università italiane filo-palestinesi: soffocando così anche gli slogan “antisemiti” e “anti-Segre”. Sorprende l’attacco a una premier che è volata a Gerusalemme cento ore dopo l’attacco di Hamas, per testimoniare al governo e popolo d’Israele la solidarietà italiana contro l’antisionismo/antisemitismo (la stesso appoggio sempre tributato all’Ucraina). Un’Italia che è stata fra i pochi astenuti sulla “mozione palestinese” all’Onu (la Francia, ad esempio, ha votato a favore).
Può darsi – ma è un’ipotesi interpretativa fra molte altre – che le fratture multiple che si vanno aggravando all’interno di Israele (dove anche le forze armate e gli apparati di sicurezza sono in fermento) si stiano trasferendo rapidamente alla comunità israelita internazionale, non esclusa quella europea. Che quindi l’appoggio del Governo Meloni al governo israeliano – in allineamento con gli Usa a difesa della “sicurezza dello Stato ebraico” – susciti crescente ostilità in quei settori israeliti che, in Europa come negli Usa, auspicano una rapida caduta di Netanyahu e un esemplare rovesciamento degli equilibri politici a Gerusalemme. Possibilmente prima delle cruciali presidenziali americane (e magari anche del vicinissimo voto europeo).
Sono gli stessi ambienti che – in Europa come negli Usa – parteggiano da sempre per i partiti della sinistra dem, a dispetto di storiche pulsioni anti-israeliane (basti pensare al caso italiano, ma anche a quello britannico). In avvicinamento a un voto europeo che potrebbe avere fra i suoi esiti un’affermazione interna ed esterna della premier italiana, non manca quindi di plausibilità una nuova sortita della senatrice Segre contro forze politiche da lei sempre avversate in Italia e oggi in maggioranza di governo, alleata della maggioranza Netanyahu e con tratti politici accostabili.
È poi un altro dato di fatto che il Capo dello Stato (fondatore del Pd e designante della senatrice) avversi una riforma che sembra poter ridimensionare non tanto il disegno istituzionale della Presidenza, quanto l’evoluzione semipresidenzialista impressa da Giorgio Napolitano in poi. Una svolta, quella del premierato, che se maturasse potrebbe avvicinare per Mattarella una fine anticipata del secondo mandato (come accadde per Napolitano). Cioè la conclusione di un quasi-ventennio di egemonia del centrosinistra fra Quirinale e Palazzo Chigi, peraltro mai suffragata da reali affermazioni alle elezioni politiche.
Resta naturalmente incerto – almeno per chi qui scrive – se e come potrebbero funzionare simili tentativi di “leverage” politico-mediatico: di gioco a più dimensioni fra allarme–antisemitismo e polemica “antifascista”. A Roma come a Gerusalemme. Nelle urne europee come in quelle americane.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.