Gli aiuti umanitari, pochi, entrano dal valico di Rafah, dall’Egitto. Ma la guerra imperversa e i bisogni sono tanti, così come le difficoltà nella distribuzione. Tanto che nella Striscia di Gaza ci sono magazzini che sono stati presi d’assalto. Una situazione che pesa su una popolazione palestinese composta per la maggior parte di giovani. E anche di bambini. Il segretario di Stato Usa Anthony Blinken è arrivato addirittura a dichiarare che senza aiuti umanitari da recapitare in modo rapido e con continuità il conflitto potrebbe allargarsi: secondo le sue parole gli uomini di Hamas non perderebbero l’occasione per speculare sulla sofferenza e presentarsi come salvatori di una situazione che loro stessi hanno originato. L’assedio di Israele, a maggior ragione ora che è iniziata l’operazione di terra a Gaza, comunque si fa sentire e certo non crea le condizioni ideali per venire incontro alle esigenze della gente del posto. “I camion che arrivano sono pochi – dice Fabrizio Cavalletti dell’Ufficio Medio Oriente e Nord Africa di Caritas – speriamo nell’apertura di un secondo valico oltre a quello di Rafah. Per ora riusciamo ancora a mandare soldi per acquisti in loco: qualcosa da comprare è rimasto ma la situazione è difficile”.



Gli aiuti umanitari ora possono entrano a Gaza, ma sono sufficienti? Come si riesce ad aiutare le persone che sono rimaste lì?

La situazione degli aiuti rimane quella che è: entrano in modo centellinato, con il contagocce, dal valico egiziano di Rafah. Si sta premendo perché si apra un altro valico a Sud, al confine con Israele: faciliterebbe molto l’arrivo dei beni. Al momento, però, rimane una speranza. Come Caritas possiamo dire che resta la difficoltà di portare aiuti, ma ci siamo organizzati. Abbiamo operatori nelle due chiese che ospitano centinaia di persone che non possono più stare nelle loro case: una è quella ortodossa di San Porfirio, che è stata colpita il 20 ottobre causando anche dei morti, l’altra è quella della parrocchia cattolica.



Cosa riuscite a fare grazie a loro?

I  nostri operatori, anch’essi sfollati, stanno organizzando degli aiuti per un migliaio di persone secondo un piano di intervento che riguarda beni alimentari, materiale igienico sanitario, medicinali e un sostegno in denaro per le famiglie, per comprare beni di prima necessità. Tutto questo succede grazie al fatto che è possibile inviare soldi: alcuni servizi bancari a Gaza funzionano ancora. Da Gerusalemme vengono inviati fondi attraverso dei bonifici con i quali i nostri referenti, dopo aver individuato alcuni fornitori, riescono a fare acquisti per poi distribuirli ai rifugiati delle due chiese. Bisogna sempre fare i conti con una disponibilità limitata perché è ancora tutto bloccato ed entrano pochi camion. Si riesce ancora a comprare qualcosa. Non il carburante, che è super razionato, ma per il resto qualcosa si riesce a prendere.



Continua anche il sostegno alle famiglie in Cisgiordania?

Stiamo valutando se ampliare gli aiuti nella West Bank, sempre con sostegni economici. Anche lì la situazione è molto difficile: le grosse limitazioni di movimento compromettono le possibilità di sostentamento delle famiglie.

Ma almeno lì, nonostante tutto, si riesce a portare qualcosa?

In Cisgiordania sì. In parte utilizziamo lo stesso sistema di Gaza, perché è efficace. Lì c’è una maggiore possibilità di fare acquisti e anche per questo mandiamo aiuti economici. Pur essendoci delle restrizioni non c’è un blocco totale.

Ma i beni che vengono comprati dai vostri operatori sono quelli che arrivano passando da Rafah?

No. Gli aiuti che arrivano attraverso il valico sono quelli delle Nazioni Unite, che vengono distribuiti principalmente al Sud nei loro centri. Con i soldi che manda la Caritas vengono acquistati beni che sono ancora disponibili nei negozi.

Gli stessi negozi che già due settimane or sono erano già in difficoltà? Ora lo saranno ancora di più. 

Esattamente. Ci sono ancora cose che si possono comprare, ma i negozi si arrangiano con le scorte che avevano accumulato prima che scoppiasse la guerra. Per quanto tempo sarà possibile continuare così non è dato saperlo. La Caritas ha programmato di procedere per i prossimi due mesi, ma la situazione è molto variabile: è difficile fare previsioni. Non sappiamo neanche per quanto tempo gli sfollati potranno restare in queste chiese: si vive in una situazione di costante insicurezza. I camion che entrano, comunque, sono talmente pochi che a malapena riescono a rifornire il Sud.

È vero che prima della guerra entravano mediamente più di 100 camion al giorno, lo stesso numero di quelli che sono entrati negli ultimi dieci giorni?

Più o meno il rapporto è questo. Nella settimana dal 21 ottobre in poi ne sono entrati 117. Per un rifornimento normale ne dovrebbero entrare altrettanti in un giorno. E bisogna tenere conto che prima del 21 non è entrato niente. Anche se si riesce a resistere, la gente è sempre più in difficoltà.

Chi tiene i contatti con i vostri operatori a Gaza?

Teniamo i contatti grazie alla nostra sede di Gerusalemme. In questi ultimi giorni a Gaza sono stati senza comunicazioni: per due giorni di fila quando ci sono stati i bombardamenti più massicci. Poi sono state riattivate e sono risaltate un’altra volta per un intero giorno.

I fondi che inviate a Gaza da dove arrivano?

Tutto avviene secondo un meccanismo consolidato: la Caritas del posto fa un programma di intervento che poi propone per essere finanziato dalle varie Caritas del mondo e ognuno dà il suo contributo. Noi abbiamo fatto un primo stanziamento di 30mila euro e le altre Caritas hanno fatto lo stesso in base alle donazioni che ricevono. Se si ricreeranno le condizioni di sicurezza si farà uno sforzo in più: la Caritas prima della guerra a Gaza assisteva 100mila persone in un anno con varie attività tra cui un centro medico e una clinica mobile.

(Paolo Rossetti)

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