Gli Usa ufficialmente si schierano dalla parte di Israele, ma l’opinione pubblica americana è divisa. E una parte appoggia i palestinesi. Lo dimostrano le manifestazioni in alcune università americane. L’amministrazione Biden, intanto, ha inviato una portaerei nella parte di Mediterraneo davanti a Israele e forse ne manderà una seconda. Al di là dello schieramento militare, però, spiega Massimo Gaggi, corrispondente dagli Usa del Corriere della Sera, Washington punta a mantenere il piano di normalizzazione dell’area che prevede un accordo tra Israele e Arabia Saudita, l’intesa, non ancora firmata, che nelle ultime ore i sauditi sembrerebbero voler congelare, e che potrebbe essere uno dei motivi che hanno mosso Hamas all’attacco terroristico perpetrato sabato scorso.
E mentre gli stessi americani cercano di contribuire alla creazione di un corridoio umanitario per la popolazione di Gaza, il mondo deve fare i conti con il pericolo del terrorismo: l’appello di Hamas per un “venerdì della rabbia” ha avuto riscontro in Francia dove un uomo è entrato in una scuola e ha ucciso un insegnante.
L’attacco di Hamas sarebbe stato attuato anche contro la possibilità di arrivare alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita attraverso un accordo di pacificazione voluto dagli Usa. Quella che è appena iniziata è in qualche modo una guerra anche contro gli Stati Uniti?
Non credo sia una guerra contro gli Usa, ma contro i valori occidentali e Israele. C’è una crisi che va avanti da decenni, con interessi politici dal punto di vista dell’Iran e senza prospettive di vita per chi abita nella striscia di Gaza. Non la vedrei come una guerra specifica contro gli Stati Uniti, anche se non sono amati da Hamas e dai palestinesi. Credo comunque che la prospettiva dell’accordo di Israele con l’Arabia Saudita sia il motivo principale che ha spinto a lanciare un attacco che, peraltro, era stato concepito già da molto tempo, da due anni. Ci stavano lavorando prima ancora che si parlasse della possibilità dell’intesa. È anche vero che gli accordi di Abramo, tuttavia, sono arrivati tre anni fa.
Gli americani hanno inviato nel Mediterraneo orientale la portaerei Gerald Ford, suscitando la reazione risentita di Erdogan per una presenza che dal suo punto di vista non ha ragione d’essere. Ora si parla dell’arrivo anche di una seconda portaerei e addirittura della possibilità dell’impiego di forze speciali per qualche azione in Israele. Solo deterrenza o ci può essere un coinvolgimento diretto nelle operazioni militari contro Hamas?
È la reazione di sconcerto di un Paese che era abituato a essere il gendarme del mondo e ora non lo è più, con gioia di alcuni e rimpianto di altri. Ho qualche dubbio però che possano arrivare ad azioni concrete. Israele poi ha un apparato militare abbastanza esteso, anche se stiamo scoprendo che negli ultimi tempi era finito un po’ in sofferenza. Gli americani potrebbero fornire armamenti, ma non credo che possano partecipare ad attacchi aerei o iniziative di questo tipo. Certo, se avessero informazioni sulla dislocazione di qualche ostaggio potrebbero liberarli con un blitz, ma anche questo mi sembra molto difficile. Hamas sembra molto ben organizzata e l’operazione del sequestro degli ostaggi è stata eseguita con una certa lungimiranza tattica.
L’opinione pubblica americana verso la guerra in Ucraina è abbastanza tiepida, non è in cima ai suoi interessi. Nei confronti di questo conflitto, invece, come si pone? Che reazione ha avuto all’attacco e come influisce sul dibattito la presenza di una comunità ebraica che conta politicamente?
Questa guerra è un motivo di divisione. La comunità ebraica è molto forte ma è anche non amata da molti. Basta vedere cosa è successo nelle università: a Berkeley in California c’è stata una veglia per i palestinesi, mentre in Florida la veglia l’hanno fatta per Israele. Ci sono diversi punti di vista. Anche in campo democratico la sinistra liberal si è spaccata. Il conflitto ha più alimentato divisioni che non suscitato compattezza. Non solo gli ebrei, ma anche gli evangelici, che sono vicino a Israele, militano a favore di un intervento contro Hamas e i palestinesi. Ma questa è una parte dell’America, non tutta. L’amministrazione Biden, democratica, sta premendo da parte sua su Israele per evitare che la rappresaglia porti a un massacro di bambini palestinesi.
Blinken, d’altra parte, si sta muovendo per cercare di realizzare un corridoio umanitario per la popolazione di Gaza. Al di là delle parole di appoggio incondizionato a Israele, c’è cautela sulle conseguenze che la situazione potrebbe comportare?
Non c’è dubbio. Il rapporto tra Biden e Netanyahu era pessimo da tempo, così come lo era con Obama. Il governo israeliano negli ultimi anni ha fatto cose inaudite, è dominato da forze populiste. È in larga misura responsabile non dell’attacco di Hamas, ma della perdita di mordente delle forze armate. Negli ultimi anni Netanyahu, passando da una maggioranza all’altra, cercando di salvare soprattutto la sua posizione personale e puntando su personaggi a lui fedeli piuttosto che competenti ha messo nell’esecutivo persone poco adatte agli incarichi che hanno avuto. Sulla situazione ha inciso molto lo stato d’animo delle forze armate, che non si sono girate dall’altra parte ma hanno smesso di lavorare con la stessa lena. Anche perché quando i capi di Stato maggiore hanno contattato Netanyahu per spiegargli che stavano nascendo dei problemi non sono stati ascoltati. C’è stato il licenziamento del ministro della Difesa e la rivolta popolare che lo ha costretto a riprenderlo. Insomma, non sono certo queste le condizioni ideali in un Paese assediato per avere un apparato efficiente.
Come si muoveranno adesso gli americani in un contesto così pericoloso? Quali sono gli obiettivi di Biden in questo momento?
Cercheranno di evitare che Israele esageri nella sua reazione e che si rompano i rapporti con il resto del mondo arabo sunnita. Blinken è partito da Israele e adesso sta girando le capitali del mondo arabo. D’altra parte, gli accordi di Abramo hanno già dato dei risultati economici concreti: ci sono alcuni regimi del Golfo che usano tecnologia di sicurezza israeliana. E anche con l’Arabia Saudita, pur in assenza di accordi formali, c’era stata una presa di contatto. Si dice che una delle cose che ha fatto infuriare i palestinesi sia una foto di un esponente israeliano che a Riyad stava pregando con la Torah aperta davanti a lui.
Gli americani, insomma, vogliono mantenere in vita il loro piano di normalizzazione dell’area?
Sì. La prima reazione dei sauditi all’attacco è stata affermare che il negoziato con Israele continua, mentre in seconda battuta hanno detto che sono al fianco dei palestinesi, ma con un linguaggio che secondo alcuni esperti alludeva più all’autorità palestinese della Cisgiordania e non ad Hamas.
Quindi l’allargamento del conflitto ad altri Paesi dell’area non è una prospettiva reale?
L’allargamento del conflitto no, ma un possibile aggravamento sì. Se succede un massacro a Gaza le reazioni di Hamas possono essere ancora molto dure. E poi rimane da chiarire il ruolo dell’Iran.
La guerra potrebbe portare anche a una ripresa del terrorismo? L’episodio di Arras, in Francia, dove un uomo ha ucciso un insegnante in una scuola al grido di “Allah Akbar” potrebbe non essere isolato?
Hamas aveva dichiarato la giornata della jihad in tutto il mondo. E ci sono cani sciolti che hanno realizzato degli attacchi. Quello francese ha colpito di più ed è stato ripreso: una scena agghiacciante. Probabile che ci saranno anche altri fatti del genere. La ripresa del terrorismo è una prospettiva concreta. Negli ultimi anni non ho mai visto un poliziotto davanti a una sinagoga neanche per sbaglio: adesso cambierà tutto.
(Paolo Rossetti)
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