Ci sono pochi modi per uno Stato sovrano per rispondere ad un attacco letale, proveniente da un’entità semistatuale straniera, ai danni dei suoi cittadini inermi.
L’attacco portato da Hamas il 7 ottobre ha colpito al cuore Israele per motivi a cui Israele deve trovare una risposta immediata.
Con quella sciagurata azione, Hamas ha dimostrato che i confini dello Stato israeliano sono violabili, che l’intelligence di Gerusalemme può essere ingannata, che l’esercito con la stella di David non è invincibile, che la popolazione civile, donne, bambini, giovani inermi sono un bersaglio che può essere ucciso, stuprato, rapito in ogni momento.
In poche parole, Hamas ha sferrato un colpo terribile al pilastro che su cui sono costruite le fondamenta dello Stato e della società israeliana, anche grazie alle distrazioni del governo di Netanyahu. Il legame di fiducia che lega i cittadini israeliani verso le forze armate, le istituzioni, il governo, ritenuti sempre in grado di difenderli da ogni minaccia, si è incrinato. Crisi dell’idea stessa di sicurezza, elemento centrale della fiducia, base di ogni comunità. E in modo speciale per la storia del popolo ebraico, per le vecchie generazioni come per i nuovi arrivati, per di più più popolo costretto a vivere in un spazio geopolitico non certo ottimale, di piccole dimensioni, circondato da Paesi non amichevoli o addirittura ostili, con anche nemici al proprio interno.
Per lo Stato di Israele compiti primari sono ricostruire il rapporto di fiducia con il suo popolo, e ricostruire il potenziale di deterrenza, obiettivi che precedono anche la comprensione e l’analisi dei motivi che hanno spinto le organizzazioni palestinesi di Gaza a colpire, in questo momento e con quelle modalità.
Con l’attacco di sabato 7 ottobre, Hamas ha scelto di scatenare la furia, la rabbia e la forza di Israele. Ha scelto di diventare obiettivo militare facendosi scudo della popolazione palestinese, degli ospedali e delle scuole di Gaza dove nei sotterranei ha nascosto missili e munizioni, trincerandosi dietro gli ostaggi israeliani. Sicura della risposta di Tel Aviv, costretta a rimediare agli errori, a intervenire duramente sapendo benissimo che nessuno Stato, tanto più Israele, può sopportare una ferita aperta di queste dimensioni.
Hamas ha dimostrato una capacità militare notevole, ha appreso le lezioni delle nuove guerre. Le nuove tecnologie hanno fatto crollare i costi degli armamenti artigianali rendendo disponibili sul mercato ordigni sofisticati che, uniti agli aiuti militari e ai consiglieri venuti dall’Iran, hanno reso micidiale la forza del piccolo esercito palestinese. Droni, strumenti di sorveglianza di ultima generazione, deltaplani, sistemi missilistici fatti in casa uniti all’uso spregiudicato del terrorismo si sono dimostrati in grado di costituire una forza d’urto fino a poco tempo fa inimmaginabile. Hamas quindi ha dimostrato di essere in grado perfettamente di combattere una guerra asimmetrica.
Così la strategia politico-militare di Israele basata su due punti, ricerca di accordi diplomatici con i Paesi sunniti “moderati” a partire dall’Arabia – accordi di Abramo – e strategia di contenimento dei palestinesi imperniata sul metodo della “tosatura del prato”, come dicono gli americani, cioè del controllo e gestione della situazione critica, è andata in fumo.
E qui inizia la seconda fase della guerra, lo spazio in cui si colloca la risposta di Israele. La storia non ci dà un numero enorme di esempi di reazione ad una forza militare che usa anche il terrorismo. L’obiettivo da parte di chi subisce non può essere altro che la distruzione, l’annientamento dell’avversario.
Ma i terroristi, tanto più Hamas che non è solo un’organizzazione terroristica come le Br, ma una forza politica, sociale ed embrionalmente statuale, hanno le proprie radici nella società palestinese. Per usare la metafora di Mao, i terroristi sono come pesci che nuotano nell’acqua. E la storia ci dice che solo due sono i metodi per raggiungere lo scopo di Israele: togliere l’acqua, isolare i terroristi dalla popolazione, portandola dalla propria parte, oppure svuotare lo stagno buttando via acqua e pesci.
La letteratura su come combattere le guerre asimmetriche, anti-terrorismo e anti-insorgenza è enorme, occupa intere librerie. Ai due estremi stanno da una parte le modalità della Gran Bretagna nella gestione della questione irlandese, dove Londra è riuscita ad arrivare alla pacificazione tra i gruppi armati dell’IRA e i gli Unionisti protestanti con gli accordi del Venerdì Santo del 1998. Dall’altra parte vi è la repressione selvaggia, totale e immediata condotta da Hafez al Assad nella rivolta di Hama nel 1982, quando distrusse un terzo della città uccidendo 40mila persone nel silenzio più assoluto dei media mondiali.
A Israele sono precluse entrambe le strade. Non può scegliere la repressione violenta senza pietà, perché gli Stati democratici, per ovvi motivi di rispetto del diritto internazionale e di guerra, di valori su cui si fondano, di sensibilità delle opinioni pubbliche non possono agire come il presidente siriano. Tanto più Israele, i suoi alleati e i non nemici arabi. Questa inoltre è una guerra super mediatica, dove i social costituiscono una nuova dimensione dello scontro combattuto a colpi di propaganda e di narrazioni alternative. Né tantomeno Netanyahu può intraprendere la strada opposta, quella della pacificazione col popolo palestinese, finita su un binario morto dopo gli accordi di Oslo.
Hamas sa tutto questo, conosce il dilemma irrisolvibile di Israele, e per questo vuole dimostrare agli occhi del mondo, e alle piazze arabe, che Tel Aviv è peggio dei terroristi, che non c’è differenza tra i bambini israeliani rapiti e massacrati a sangue freddo e i bambini palestinesi uccisi sotto le bombe israeliane.
Ecco gli obiettivi di Hamas e dell’Iran suo sponsor: rendere intrattabile la questione palestinese, far saltare gli accordi di Abramo, scatenare la reazione di Israele, aizzare le piazze arabe per allargare il conflitto all’intera regione.
Poco importa chi abbia ragione e chi torto, cosa sia vero e cosa falso: questa è anche una guerra identitaria e mediatica. Nelle questioni di sicurezza non conta la verità, ma le percezioni delle parti. Sabato al telegiornale un giovane manifestante palestinese o arabo intervistato in Italia affermava, con tranquillità, che quelli di Hamas non sono terroristi. E la maggioranza dei palestinesi di Gaza, della Cisgiordania, dei campi profughi libanesi e giordani, gli iracheni sopravvissuti a venti anni di guerra, i musulmani di mezzo mondo, compresi quelli che vivono in Europa, pensano che l’Occidente usi due pesi e due misure e che sia l’ora di finirla.
Ma Hamas e l’Iran stanno cercando anche di trasformare la questione palestinese in un tassello dell’attuale guerra mondiale a pezzi: si vedano le posizioni della Russia, ben contenta di approfittare in Ucraina dei nuovi impegni e preoccupazioni di Washington, e della Cina, che tira un sospiro di sollievo vedendo allontanarsi la possibilità di costruzione della strada intercontinentale che dovrebbe, o forse avrebbe dovuto, connettere l’India all’Europa attraverso gli Emirati Arabi, l’Arabia Saudita, Giordania e Israele facendo di fatto saltare l’utilità della Belt and Road Initiative che invece passa attraverso Iran e Russia (Iran wanted Saudi Arabia to drop Israel — but failed miserably, nypost.com). Non a caso il segretario di Stato americano Anthony Blinken è stato costretto a telefonare a Wang Yi, membro dell’Ufficio politico del Comitato centrale del PCC e ministro degli Esteri cinese, affinché eserciti pressioni sugli amici di Teheran perché dissuadano Hezbollah dall’aprire un nuovo fronte con Israele (Pechino invia in Medio Oriente l’ambasciatore Zhai Jun come mediatore tra le parti).
Ma non si dimentichi che ogni richiesta di mediazione o pressione su avversari e non amici per circoscrivere il conflitto implica un prezzo da pagare, tanto più salato tanto più la posta è alta, come in questo caso, dove in ballo c’è il dovere di scongiurare una guerra di ampie dimensioni.
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